Home > Troppo comodo pentirsi, 50 anni dopo
Nell’ottobre ’56 Di Vittorio indicò una via, aprì una prospettiva critica a tutta la sinistra italiana e ribadì fra enormi difficoltà la forza e l’importanza di valori identitari.
La sinistra italiana fu investita in pieno dai «fatti d’Ungheria» e reagì in modi diversi. Il sindacato comunista si inalberò, il partito appoggiò Mosca. Ma chi ora si dissocia da quelle scelte forse non considera quanto sarebbe stato difficile fare diversamente e restare una grande forza di sinistra
di Valentino Parlato
Ottobre 1956-ottobre 2006: cinquant’anni fa i «i fatti d’Ungheria». Allora avevo venticinque anni, ero nel Pci e ci rimasi. Non pensai affatto che la rivolta di Budapest fosse fascista. Sentii vergogna e dolore, apprezzai la presa di posizione di Di Vittorio; ma anche Di Vittorio rimase nel Pci.
Oggi sono in molti, tra i vecchi iscritti al Pci, a dire che quello fu un errore gravissimo e anche un’occasione perduta per il Pci. Sono un po’ provocatorio, ma mi viene da dire che quando il rischio è passato, dichiarare l’errore o la colpa non convince affatto. Aggiungo, per fare un esempio di peso, che se Giorgio Napolitano avesse detto nell’ottobre del 1956 quel che ha detto nei giorni scorsi, difficilmente sarebbe stato eletto Presidente della Repubblica; e sarebbe stata una perdita seria. La mia tesi è che nel 1956 quella del Pci e di tutti noi che restammo nel Pci fu una scelta obbligata e giusta, anche nel medio periodo. Ancora oggi condivido il titolo del famoso editoriale di Pietro Ingrao, «Da una parte della barricata». Non dobbiamo dimenticare che c’era la guerra fredda e che il mondo era diviso in due secondo l’accordo di Yalta. Mi fa specie che quelli che oggi sostengono la tesi dell’errore o della colpa non riflettano sul fatto che gli Usa e tutto l’occidente non mossero un dito a sostegno dell’Ungheria; anzi, con l’intervento militare anglo-franco-israeliano a Suez, diedero un plus di legittimità all’intervento sovietico.
Né bisogna dimenticare che dopo il primo intervento i sovietici si ritirarono e che il secondo brutale intervento ci fu quando Nagy (la cui impiccagione nel giugno ’58 fu demenziale), il primo novembre, annunciò l’uscita dell’Ungheria dal patto di Varsavia, cioè la rottura del sovrastante accordo di Yalta. E non bisogna dimenticare ancora che nei mesi precedenti, in giugno, c’erano stati i fatti in Polonia, risolti con il passaggio di Gomulka dal carcere alla direzione del governo. Il tutto non molto democratico, ma assai meglio che in Ungheria. Gomulka non denunziò il patto di Varsavia. E a proposito di Polonia e Ungheria, non va neppure trascurato il diverso contesto e anche i diversi comportamenti del primate di Polonia, cardinal Stefan Wyszynski e di quello d’Ungheria, cardinal József Mindszenty.
Ripeto, c’era la guerra fredda e mi chiedo: c’è qualcuno che dubita che se nel 1948 i social-comunisti avessero vinto le elezioni non ci sarebbe stato un intervento militare Usa? E, sempre a proposito di 1956, non è da dimenticare che in quell’anno fu formalizzato l’accordo tra i servizi italiani e quelli statunitensi, meglio conosciuto sotto il nome di Gladio.
Non mi convince neppure la tesi dell’«occasione perduta» da parte del Pci. A mio parere il Pci del 1956, che già aveva mal digerito il rapporto segreto di Kruscev, si sarebbe spaccato. Qualcuno si ricorda di Pietro Secchia? Invece, forse proprio per quell’«occasione perduta», già le elezioni del 1958 segnarono un consolidamento del Pci. Il quale Pci - altra cosa da ricordare - nel dicembre di quel tremendo 1956 con il suo VIII Congresso segna la fine dello stato guida e del partito guida e avvia quella che sarà chiamata la via italiana al socialismo. Ricordo il lavoro di bonifica nelle federazioni emiliane nel quale si impegnò Giuseppe D’Alema (padre di Massimo). Per il Pci si aprì una buona stagione. Per ultimo credo non vada dimenticato che in quegli anni era ancora robusta la famosa «forza propulsiva» dell’Unione sovietica: c’erano i movimenti di liberazione dei popoli coloniali, l’emergere del raggruppamento dei «non allineati», il tentativo di passare alla «coesistenza pacifica».
Tutte cose che agivano sulla linea del Pci e del suo corpo e anche sull’orientamento degli italiani. Per tutto questo penso che la scelta del 1956, per quanto dolorosa, sia stata anche una scelta obbligata e in questo senso anche una scelta valida. Tutt’altra storia è quella del 1968, di Praga e della repressione di quella bella primavera. In quel frangente le responsabilità del Pci e del suo gruppo dirigente furono tanto gravi quanto chiare. E’ vero che anche dopo la liquidazione del tentativo di Dubcek il Pci continuò a registrare successi elettorali, ma anche per lui era arrivata la fine della sua «forza propulsiva». E mi chiedo ancora: dal 1956 al 1968 erano passati ben tredici anni; in tutto questo tempo, quei compagni che oggi denunciano le colpe del 1956 a che cosa avevano pensato? So bene di essere provocatorio e che sarò accusato di superficialità e di stalinismo senile, ma pazienza.