Home > Un’Italia sempre più figlia della tv
Nel 1988 Guy Debord nei Commentari alla Società dello Spettacolo sentenziava profeticamente: “Chi non fa che guardare per sapere il seguito, non agirà mai: proprio così deve essere lo spettatore”. E proprio così è diventato l’italiano medio, in un processo lento e vizioso di mutazione antropologica. La “vecchia-piccola borghesia” nostrana, spettatrice assopita per più di trent’anni, si è lasciata troppo a lungo distrarre dalla forte luce emanata nel buio del proprio salotto.
Mentre la televisione culturalmente sbriciolava ogni capacità critica, il paese inesorabilmente si trascinava alla deriva lacerato dalla corruzione e dal dominio incontrastato di banche e grandi interessi. E un sonno, che pareva eterno, ha trovato invece un brusco risveglio: anche per i più facoltosi, i risparmi hanno cominciato ben presto a dissiparsi, gli stipendi a dimezzarsi, mandando in crisi quel tipico stile di vita iperconsumista, insostenibile per qualunque stato, persino per il più ricco. E’ stata dura ma finalmente si è arrivati a comprendere che rateizzazioni e prestiti facili sono solo specchi per le allodole: è giunto il momento di tirare la cinghia. Quasi per tutti. E il fatto ha irretito soprattutto chi da poco aveva iniziato a gustarsi auto nuove e cellulari all’ultima generazione. L’avidità ha preso il sopravvento, la frustrazione ha fatto tutto il resto. E un popolo, abituato a emigrare per necessità persino al proprio interno, ora si ritrova a puntare il dito contro l’immigrazione, come se le colpe di cinquant’anni di democrazia cristiana, tangenti e mafia dovessero ricadere solamente su chi da qualche anno a questa parte raggiunge l’Italia coprendo magari quei posti di lavoro troppo degradanti per le nuove generazioni improvvisatesi studenti universitari a vita.
Da tempo l’Italia è malata e da forti segnali di cedimento strutturale. L’economia da stagnante si è trasformata in recessione. E nemmeno Berlusconi è stato più in grado di promettere il nuovo miracolo italiano. Anzi ha fatto tutto quello che poteva per perdere le elezioni. Battute infelici sui precari, una gestione strumentale e criminale della crisi Alitalia, un’emorragia consistente di voti al suo estremo destro con Storace e al centro con Casini. Ma non è bastato. Le votazioni hanno espresso un solo desiderio: la svolta a destra. E la vittoria di Alemanno nella capitale ne rappresenta la più grande conferma. Secondo il verbo popolare è giunto il momento di abbandonare ogni forma di solidarietà sociale e passare la mano alla repressione. Tutto in mano ai garanti di una sicurezza ormai ufficialmente entrata in crisi, semmai proprio per l’esplosione di contraddizioni interne e non per il sopraggiungere di elementi esterni. Siamo stati tutti travolti dalla precarizzazione della vita comune, da un innalzamento vorticoso dei costi dei beni primari, da un capitalismo sempre più lontano e al tempo stesso mai così vicino negli effetti. E la soluzione populista ha trovato terreno fertile: mettere poveracci italiani contro poveracci extracomunitari. Ma chi ha invocato la repressione, a questo giro, sarà il primo a subirla. E per gli strupri e le violenze arriverà una soluzione ancora più creativa: dopo il bombardamento delle ultime settimane nessuno ne accennerà più nulla. E le paure indotte cesseranno per essere nuovamente provocate entro breve. In modo tale da riscatenarsi contro i nuovi falsi colpevoli.
E mentre la cultura, quella lontana dalle applicazioni commerciali che spopola ormai ovunque, diventa sempre più un lusso per pochi elementi avulsi da ogni contesto, la gente comune, sempre più avvezza alla distrazione fornita dal coperchio spettacolare di quella pentola in ebollizione chiamata realtà, diventa giorno dopo giorno più egoista e razzista.
Messaggi
1. Un’Italia sempre più figlia della tv, 9 maggio 2008, 12:06
unica annotazione: non è solo la piccola borghesia... ma anche quello che si chiamava PROLETARIATO un tempo a stare assopito davanti alla tv. Tanto per dire...