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Un ceto politico in cerca di reddito

Publie le martedì 1 agosto 2006 par Open-Publishing

Da "il Manifesto" del 30-07-2006

Fabio Ciabatti *

E’ forse il caso di dare un tocco di sano materialismo al dibattito
su salario/reddito, tentando una contestualizzazione che individui
le origini storico-sociali delle teorizzazioni in questione. Certo,
così si rischia di passare per brontosauri (leggi: dinosauri che
brontolano). Ma bisogna sottrarsi alla tentazione di voler fare a
tutti i costi i moderni per non essere etichettati come antiquati.
Per farla breve, vale la pena di considerare l’ipotesi
che nell’enfasi sul basic income pesi una vicenda generazionale: i
figli della piccola/media borghesia statale, intellettuale e
professionale vedono un futuro lavorativo decisamente al di sotto
delle loro aspettative, derivanti dal proprio status familiare. Per
questi soggetti il lavoro non si è mai presentato come necessità per
campare, ma come fonte di autorealizzazione. Di fronte a un mercato
del lavoro che offre ben poco, non si rassegnano ad una perdita di
status e fantasticano di una via di uscita collettiva che è, in
realtà, mero sotterfugio individualistico, per illudersi di poter
continuare a cercare, con le terga parate dalla munificenza statale,
la via della propria realizzazione. Insomma, come disse Marx a
proposito del socialismo borghese, "vogliono le condizioni di vita
della società moderna senza le lotte e i pericoli che
necessariamente ne derivano". Ovviamente, sto qui facendo
riferimento al ceto politico degli attivisti "sanprecaristi", una
minoranza certamente capace di trascinarsi dietro una parte, a volte
consistente, della massa atomizzata dei lavoratori precari, ma che,
al contempo, non è mai riuscita a trasformare la partecipazione a
scadenze (rituali e identitarie), in movimento reale, in grado di
modificare i rapporti di forza. Di fronte all’astrattezza della
proposta politica, prevale il concreto bisogno di mettere insieme il
pranzo con la cena.
Anche in considerazione di questa difficoltà, con una verniciatina
di "postfordismo", l’autorealizzazione del ceto politico
diventa "autovalorizzazione". Che poi, di fatto, significa fare gli
imprenditori di se stessi, autosfruttarsi, e per pochi "fortunati",
gli imprenditori tout court. Ma in questa scelta si perde l’anelito
solidaristico, la connotazione di classe. L’imprenditore è in guerra
con tutti, imprenditori o lavoratori che siano. E tanto più
l’attività imprenditoriale è marginale tanto più selvaggia ha da
essere la concorrenza. Tant’è che, per poter teorizzare un agire
collettivo che nella realtà non è dato vedere, ci si è dovuti
inventare una spontaneità cooperante e solidale, una sotterranea
connessione di menti reticolarmente dialoganti, che
sgorgano misticamente dalla monade moltitudinaria.
Ma, con buona pace della moltitudine stessa, non basta "rinunciare
all’odiosa rappresentazione" che ci si è fatti del capitalismo, per
entrare nella "nuova Gerusalemme". Per la massa degli sfortunati
autovalorizzantisi, la realtà fa valere la sua cogenza ed allora il
tutto si risolve "in un vile piagnisteo". Noi rivendichiamo soltanto
il valore già prodotto, ci dicono i sostenitori del basic income: ma
se sfrondiamo questa affermazione dai suoi discutibili presupposti
economici, rimane solo la moralistica denuncia dello sfruttamento.
D’accordo con la denuncia, ma se bastasse condannarlo per porgli
fine, il capitalismo sarebbe defunto da molto tempo. Di certo, è
bizzarro sentir parlare di ricchezza eccedente, a proposito di
quelle persone che di sovrabbondante hanno solo gli anni passati in
casa con papà e mammà perché, in quanto lavoratori precari, non
hanno un soldo per andarsene a vivere da soli.
Infine, due precisazioni. In primo luogo, negare la praticabilità
del basic income è cosa diversa dal negare che si debba cercare di
ottenere e/o allargare le prestazioni degli ammortizzatori sociali;
in secondo luogo, individuare i limiti e gli errori intrinseci ad
una pratica politica non significa accusare i soggetti che se ne
fanno portatori di non esprimere alcun tipo di conflittualità.
Ma se la conflittualità si basa su illusioni, alla fine la realtà fa
valere la sua cogenza magari anche attraverso polizia e
magistratura. La realtà si fa beffe delle nostre illusioni. Pur non
condividendo una linea politica, in molti casi (e questo è uno di
quelli) si deve solidarizzare con chi, perseguendola in buona fede,
ne patisce le conseguenze. A chi non è d’accordo resta però il
dovere di indicare che ci si sta indirizzando verso una strada senza
uscita. Ad altri rimane la responsabilità di aver indicato proprio
quella via.
* per "Vis-à-Vis"