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UN RAGGIO DI SOLE di Francesco D’Ignazio
“Lo scetticismo ingiustificato, che accompagnava gli avventori prima della proiezione di quest’opera, si è liquefatto sui titoli di coda, grazie a un mare di applausi sinceri e commossi.
La profonda introspezione dei personaggi, l’alternanza dalla commedia alla tragedia, ne fanno una perla di rara bellezza.L’ostrica che la ospita giace incustodita in chissà quali sconosciuti fondi marini. Film da non perdere.”
Le definirei parabole creative messe al servizio di chi creativo proprio non riesce ad esserlo.
Del resto qualcuno dovrà pur adoperarsi nel tentativo di dare al cinema italiano una parvenza di credibilità, no?
Per non essere tratto in inganno da queste recensioni, ho sperimentato un mio personale metodo:
scelgo il film e vado senza aver letto nulla dello stesso, solo il giorno seguente apro il giornale alla rubrica del cinema. Qui assistiamo, nero su bianco, alla miracolosa trasformazione.
Diciamo che per essere più chiari, la accosterei al più sputtanato dei fenomeni naturali:
il modesto bruco che si tramuta in legiadra farfalla. Ne più ne meno.
Davanti a tutto ciò non può che venirmi in mente la battuta di un grande comico:
“ è curioso come a volte tutto appaia così soggettivo”.
Ieri ho letto:
“ Il nostro cinema sta uscendo dal tunnel, c’è un raggio di sole.”
Come potremmo mai ripararci da tanto bagliore?
Il produttore deve salvaguardare la sua creaturina, d’accordo, però non ci sto che il lettore debba esser trattato come un lobotomizzato.
Per quale motivo poi? “Perchè il settore non può finire in passivo, tesoro mio!”
Ok, allora a questo punto sta a noi svegliarci.
Purtroppo la maggior parte delle persone si sta assuefando, o per pigrizia o per ignoranza, ad accettare tutto ciò che sistematicamente viene divulgato dagli organi di informazione.
Assorbiamo consciamente e inconsciamente:
dati, informazioni, valutazioni, liste dei buoni, liste dei cattivi, chi ci vuole male, chi ci vuole bene, pubblicità occulte, pubblicità non occulte, nuovi eroi, vecchi eroi e potenziali eroi.
“Il dubbio verso tutto quello che ci circonda, potrebbe essere la nostra salvezza.”
Queste sono le ultime parole che mio padre, ormai delirante a causa di un tumore al cervello, mi disse prima di lasciarmi.
Aggiunse anche, davanti al suo personale crepuscolo:
“ Segui il mio consiglio, cambia il commercialista, quello fa solo danni.”
E’ stato,anche lui, un giornalista e per tutta la vita non ha fatto altro che ripetermi:
“ non dare fastidio a nesuno, se vuoi far mangiare la tua famiglia, però chiediti sempre su quale binario passa la verità”.
Mio padre non è stato un eroe, ma neanche uno scemo.
Non voglio dilungarmi o immalinconirvi, devo semplicemente scrivere una recensione per un film, commissionatami dal direttore del giornale. Solitamente non scrivo di cinema, ma questa è un’emergenza.
La mia collega e amica, Sandra, ha avuto un incidente.
Ora è in ospedale un pò rotta, decisamente fuorigioco.
Il motorino a Roma può essere pericoloso.
E’ lei che scrive la nostra rubrica di cinema e io oggi devo sforzarmi di esserne il degno sostituto.
Nel nostro piccolo giornale, ci riciclano continuamente, tutti facciamo tutto e la cosa per quanto mi riguarda è stimolante.
Tornando a Sandra, mercoledi scorso l’ho incontrata, eravamo in centro tutti e due.
Dopo i soliti convenevoli che incorniciano gli incontri casuali, seguiti da un caffè, lei mi ha detto:
“ sto andando a vedere un film al Quattro Fontane, dopo la proiezione c’e la conferenza stampa con il regista e gli attori.
Devo recensirlo, perchè non mi accompagni?”
Sono andato e così giunti nei pressi del cinema ho udito un passante impegnato in una conversazione telefonica: “no, oggi è una proiezione solo per la stampa. Domani leggiamo la critica e magari ci veniamo.”
Sandra, all’affermazione dell’uomo, mi ha strizzato l’occhio.
Entriamo, lei fiera, va per gli accrediti, io resto lì in mezzo.
Sorrido a un paio di persone che conosco e in quel momento squilla il cellulare. Rispondo, ma non sento nulla, troppo chiasso. Mi faccio largo fra la gente verso l’uscita. E’ il mio meccanico, mi spiega che la vespa è pronta, trentacinque euro, ma il guasto che ha riparato potrebbe riproporsi se entro un certo periodo non dovessi decidermi a sostituire definitivamente il pezzo: trecentocinquanta euro.
Per adesso va bene così.
Fuori noto quattro giovanotti avvolti in una coltre di fumo: abiti scuri, colorito palido, aria stanca e vagamente annoiata.
A un certo punto qualcuno lì chiama: il primo, con la barbetta e l’aria più sicura, s’incammina verso l’entrata, gli altri si accodano.
Dalle chiacchiere intorno a me intuisco che si tratta del regista e della la sua banda.
Al passaggio dei quattro un leggero olezzo di cannabis si disperde nell’aria:
c’è aria di rivoluzione.
Rientrando scorgo Sandra divincolarsi tra le persone assiepate nel fouaier, viene nella mia direzione, sorride e sventolando gli accrediti mi fa l’occhiolino.
Sandra adora fare l’occhiolino, credo la faccia sentire una tipa disinvolta.
Le luci in sala gradualmente vanno scomparendo, le poltrone in cui affondiamo ci danno sicurezza, resta un brusio di fondo, comincia il film.
Sandra spenge il telefono, inforca un paio di occhialini alla John Lennon, accavalla le gambe e alza leggermente il mento in direzione dello schermo, pronta per la visione.
Nella sala non vola più una mosca.
Il film racconta la vicenda di un uomo sulla quarantina, che vive una vita agiata e monotona:
moglie bella ma insignificante, figli ingrati, ottimo lavoro e dulcisinfondo un pastore tedesco (della serie solo l’anima candida del cane mi capisce), unico spettatore interessato ai monologhi tragico-esistenziali del suo padrone.
Un bel giorno ,avvolto nel suo bel completo da professionista e con tanto di ventiquattrore, s’imbatte casualmente in una specie di barbona-fricchettona.
La donna, dallo sguardo sognante, lo interroga sul senso della vita, lui sconvolto dall’evento fugge. Troverà riposo in una sauna per ricchi.
Al momento della fuga dalla “saggia”, l’uomo perde l’agendina.
La scena si conclude con un’inquadratura della donna, che con gesti ampi ed enfatici raccoglie l’agenda del nostro protagonista. Tornato a casa lo vedremo in costume da bagno, immerso nella sua bella piscina; se ne starà lì (pieno di poesia) a contemplare i rombi, generati dai riflessi del sole, disegnati sul fondo.
Poco dopo imbattendosi nella moglie, che sorseggia drink e fuma avidamente,
le parlerà delle sue nuove scoperte e della bellezza di quei rombi che tanto l’hanno fatto riflettere.
L’insensibile donna (l’autore ce lo sottolinea con insistenza) , davanti alle esternazioni del marito, sbotta in un riso beffardo.
L’uomo colpito da tanta crudeltà esce stizzito di casa.
Lo ammireremo alla guida dell’elegante station wagon procedere verso una destinazione ignota.
Qui il regista ci regala dieci minuti(cronometrati con il mio orologio da polso) di dettagli all’interno della macchina:
gli occhi lucidi, le mani che stringono rabbiose, flasch back della barbona-fricchettona.
Fortunatamente arriva lo squillo del cellulare.
Sarà proprio l’anziana donna, a metterlo al corrente di aver ritrovato l’agenda.
L’uomo solo al suono di quella voce così “soave” cadrà in una specie di trans mistica.
Nella scena successiva vedremo i due, in un campo di grano, guardarsi negli occhi
senza proferire parola; il clima ascetico incornicerà la restituzione dell’agenda.
L’uomo, tornatone in possesso, la fisserà con sdegno e colto dal più curioso degli impulsi la scaglierà fra le distese di grano.
La donna, fiera del suo nuovo discepolo, annuirà e dirà:
“ E’ tornata alla terra per restarci. Hai capito?” e lui: “ ho capito, il mio tempo ora è nuovo”
e lei: “ si, è nuovo, tu sei nuovo, tutto quello che giace in te è nuovo. Il signore del giardino ci sta aspettando, incamminiamoci”
Prima che i due s’incamminino alla volta di questo fantomatico “signore del giardino”, si soffermano ancora una volta l’uno negli occhi dell’altra, finchè lei sfilerà da sotto una specie di parannanzi, un sajo che porgerà con aria solenne al nostro beniamino.
Finale emblematico della scena: lui, nudo davanti ai grandi campi.
Per farvela breve “il signore del giardino”, un tipo dinoccolato che ogni tre parole spara una massima sulla realtà esistenziale, arruola il nostro a suo adepto e successore.
Scomparso dalla famiglia e dal lavoro desterà la preoccupazioni di tutti, finchè la moglie dopo varie e strambe indagini, riuscirà a scovarlo nella comunità dove il nostro risiede e lavora (abile falegname in tempi record). La donna, sconvolta, alla vista della nuova versione del marito, lo abbraccerà con rabbia;
lui, in sajo e sandali, contemplerà pieno di comprensione le lacrime versate dalla ormai sua ex compagna.
Poi la inviterà a restare qualche giorno in quella comunità tanto speciale, per poter chiarire le motivazioni di quelle decisioni tanto repentine.
Tra le sequenze di loro al fiume (era il Gange per caso?), in tenda dove lui le legge la mano, insieme mentre lavorano il legno, in ascolto meditativo davanti all’uomo del giardino, si arriva al finale del film.
Dialogo conclusivo:
lei: “tornerò alla mia vita ansiosa e metropolitana”.
Lui: “resterò in ascolto dell’allodola.”
Epilogo:
panoramica su una immensa distesa incontaminata attraversata da una strada sterrata, la macchina di lei che si allontana sullo sfondo, lui di spalle saluta
(sempre in sajo e cioce) con mano ferma.
La macchina ormai è un puntino lontano, ma lui continua a salutare. Bà.
Titoli di coda e scritta: “FINE”.
Questo a grandi linee è quello che accade nel film.
Si riaccendono le luci in sala, applauso tiepidino.Guardo Sandra, non si volta,
mi ignora.
Sfila gli occhiali dalle orecchie e con aria paciosa li ripone con cura nella custodia.
Gli faccio: “Sandra”.
Risponde: “si?”.
“Allora? Che ne dici?”
Mi guarda e con l’aria di una di quelle suore missionarie che ogni giorno salvano decine di bambini in Africa, dice: “ che delicatezza, amico mio. Che delicatezza.”
Ecco, questi sono i momenti in cui rimpiango drammaticamente il fatto di non essere un bruto e infatti garbatamente espongo il mio punto di vista:
dico a Sandra che anche se non sono un esperto come professa di essere lei, posso vantare una discreta cultura cinematografica da poter giudicare assolutamente insoddisfacente l’opera a cui abbiamo assistito.
Ridacchia fra i baffi, come se avesse tenerezza del mio giudizio e butta lì quelle qualità del film a cui avrei dovuto fare più attenzione: la grande simbologia, l’introspettiva significanza, la profonda metafora e l’universalità del messaggio.
Francamente, le dico di non aver visto niente di tutto questo e che l’unica cosa chiara che ho notato, è la solita storia dell’uomo moderno, che vive l’inflazionato conflitto del “malessere nella società del benessere”. Aggiungo che anche l’evoluzione del personaggio verso una salvezza di stampo fricchettone-meditativo-orientaleggiante l’ho trovata scontata e mal raccontata.
Come se non avesse minimamente ascoltato le mie esternazioni mi fa l’ennesimo occhiolino e mi dice: “ dai andiamo avanti di qualche poltrona, sta per cominciare la conferenza stampa”.
Comincio ad avere una specie di problema con questa donna.
Mentre siamo in attesa del regista e degli attori, colgo l’occasione per farle notare quanto fiacchi siano stati gli applausi e che molte delle persone in sala (addetti ai lavori) probabilmente la pensano come me.
Le dico: “guardati intorno, non vedo tutto questo entusiamo”.
Reaggisce contrariata questa volta e dice: “ non prendertela per cortesia, ma la recensione devo farla io. E poi non è il tuo campo.”
Mentirei nel dirvi che non ci sono rimasto male, così mi sono zittito.
Arrivano gli artisti. Sandra vedendomi offeso mi dà un pizzicotto sulla spalla e di nuovo giù di occhiolino; cinicamente penso che la storia di quest‘occhiolino sia più legata all’insicurezza che alla disinvoltura.
Cominciano le domande:
“Perchè la scelta di quell’attore”?
“E’ stato difficile trovare la produzione?”
“A chi è dedicata l’opera?”
“ Il film aspira a essere proposto alla candidatura agli oscar?” Questa era di Sandra.
“ Ha in cantiere un nuovo film?”
“ Ama il cinema svedese?”
E così avanti per una quarantina di minuti.
Il regista ,prima di lasciarci, dice che non si aspetta dal pubblico un’immediata comprensione dell’opera, augura a tutti una graduale metabolizzazione dei concetti espressi.
Pensando a quello che ho visto oggi, rigiro personalmente l’augurio al mittente.
Usciamo fuori, è già buio, le giornate si sono di nuovo accorciate.
Sandra sale in motorino e schizza via, io sono con i mezzi e vado a recuperare la vespa.
Passano un paio d’ore, squilla il cellulare, è il direttore:
“ senti, Sandra, è volata dal motorino. Mi ha chiamato in lacrime, si è rotta il braccio, il polso non ho capito bene... mi ha detto che hai visto la prima con lei.
Scrivi un pezzo e vieni qui domani, gli diamo una controllata insieme e lo mandiamo subito in stampa. Anzi domani non ci sono, portala direttamente in stampa e siamo apposto. Fai un bel lavoretto, mi fido di te.”
Poco dopo di nuovo il cellulare, è Sandra dall’ospedale. Mi chiede di andare lì.
La trovo ingessata in più parti e con gli occhi neri.
Dice: “ anche se il film non ti è piaciuto, quando scriverai il pezzo dovrai attenerti ai toni della mia rubrica, capito?”
I toni in questione, sarebbero quelli che non creano problemi a nessuno.
Continua decisa: “prendi carta e penna, per favore”.
Mi detta l’inizio della recensione.
Sarebbe il virgolettato che vi ho messo in cima al racconto, quello “dell’ostrica che ospita la perla di rara bellezza.” Ve lo ricordate?
“ Parti da questo e sviluppalo” dice.
La rassicuro, mi fa troppo pena. Così conciata ancora brama per le sue opinioni di critica, da non credere.
L’ho salutata affettuosamente e prima di uscire, sorridendo, gli ho fatto l’occhiolino.
Non è stato volontario, non volevo schernirla, è venuto fuori da se.
Fatto sta che prima di chiudere la porta alle mie spalle, ho notato una specie di risentimento nel suo sguardo.
Eh si, quella strizzatina d’occhio non le è andata proprio giù.
L’avrà interpretata come una sfida, o come uno smacco imminente, chi lo può dire.
Riflettendoci...
Che fosse in pena per l’articolo?
Per farvela breve “il signore del giardino”, un tipo dinoccolato che ogni tre parole spara una massima sulla realtà esistenziale, arruola il nostro a suo adepto e successore.