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Un tuffo tra Eisenhower e Kennedy: Hollywood si interroga sul presente degli Stati uniti

Publie le domenica 8 gennaio 2006 par Open-Publishing

Dazibao Cinema-video - foto

L’America si cerca negli anni 50 "Brokeback Mountain", "Good Night and Good Luck", "Capote", la parabola di Johnny Cash in "Walk the Line", con un tuffo nel passato tra Eisenhower e Kennedy Hollywood si interroga sul presente degli Stati uniti

di GIULIA D’AGNOLO VALLAN NEW YORK

"Watergate e parecchio di ciò che successe intorno a Watergate e al Vietnam, negli anni Settanta, è servito a erodere l’autorità che io ritengo necessaria a far sì che un presidente possa essere efficace, specialmente in materia di sicurezza nazionale".

Così, il 21 dicembre scorso, in una raggelante intervista rilasciata a bordo di Air Force 2, il vicepresidente Usa Dick Cheney fugava ogni dubbio non solo sulle sue intenzioni, ma anche su ogni equivoco relativo alla sua stabilità politica.

Illegali sono le misure approdate dopo Watergate per dare al Congresso e ai media più possibilità di contrastare il potere dell’esecutivo, non registrare illegalmente le telefonate dei cittadini americani o imprigionarli senza giustificazione per anni, sosteneva candido il n. 2 di George W. Bush.

Che tra i progetti dell’amministrazione ci sia anche quello di cancellare virtualmente un paio di decadi di storia americana e i fastidiosi corollari che le hanno caratterizzate - dalla cacciata di Nixon ai movimenti per la pace, per i diritti civili, per i gay, per le donne... - non è un mistero. È provato, d’altra parte: avere delle biografie ambientate nel cuore della controcultura ha giovato poco sia alla presidenza Clinton che alla candidatura di John Kerry, resi «vulnerabili» dal loro stesso passato.

Basta vedere come si stanno formattando lontano da quel background tutti i possibili candidati presidenziali del 2008, Hillary inclusa. Non stupisce quindi che l’immaginario hollywoodiano sembri di colpo guardare con curiosità, idealismo e non poca nostalgia all’era che precede le «turbolenze» dei sixities e, con esse, la messa in crisi dell’immagine di una società stabile, seppur poco sfaccettata. Lo sfondo privilegiato della maggior parte dei film che stanno accumulando nomination e premi nella corsa che si concluderà con gli Oscar è infatti l’America tra l’inizio degli anni Cinquanta e i primi anni della decade successive, tra la Corea e l’inizio del Vietnam, tra Eisenhower e Kennedy.

La storia di due guardiani di pecore innamorati nel Wyoming del 1963 (Brokeback Mountain), la lotta di un leggendario giornalista televisivo contro Joseph McCarthy (Good Night and Good Luck), la spedizione di una star dei salotti letterari newyorkesi nelle piane desolate e gelide del Kansas (Capote), la parabola biblica e «fuori legge» di un grande artista della musica del Sud (Walk the Line) sono vissuti come viaggi nel tempo alla ri-scoperta di geografie politiche, sociali, emozionali e del paesaggio diverse.

Nonostante siano ricostruiti nei dettagli d’epoca in maniera quasi ossessiva - dalla moda, al décor, ai colori, agli accenti, al milieu che rappresentano - sono però film che sembrano meno cristallizzati nel passato e più intesi a fornire nuove chiavi per leggere il nostro presente - un presente che (per citare i titoli dei quotidiani di questi giorni) si muove schizofrenicamente a cavallo tra le narrative da secondo millennio degli scandali finanziari e quelle ottocentesche di una tragedia in miniera.

Come trovare il punto di fuga tra questi due poli? - che è poi come rappresentare il paese e anche come portarlo al cinema - è quello che si sta chiedendo chi pensa a Hollywood. Film che sembrano esprimere il bisogno di una riflessione su cosa è «il carattere americano» (non diversa da quella che fa Malick in The New World), quelli di cui parliamo, sono tutti - meno Brokeback Mountain, che però fa riferimento agli archetipi del West - incentrati su figure cardine della cultura Usa: Truman Capote (Capote), Johnny Cash (Walk the Line) e Edward R. Murrow (Good Night and Good Luck), figure non a caso di mavericks, «ribelli» che hanno saputo stagliarsi in modo indelebile sullo sfondo degli anni grigi di Eisenhower, grazie a un misto di genio, molta capacità di rischiare, un po’ di sregolatezza, ma (lo sottolineano tutti i film) e soprattutto, assoluta convinzione.

La coerenza (verso se stessi) in quanto individui, come l’eden perduto a cui bisogna ritornare. È questo il senso cristallizzato nel durissimo faccia a faccia tra Ed Murrow (David Strathairn) e Joe McCarthy (lui medesimo, nelle immagini d’epoca), come messo in scena da George Clooney con la sua limpida, intelligente, seconda regia, un film inteso come un chiaro atto d’accusa al giornalismo contemporaneo.

Costruito intorno alla genesi di uno dei libri più famosi di Truman Capote, In Cold Blood («A sangue freddo»), e diretto dall’esordiente Bennett Miller, Capote indaga invece il rapporto tra uno scrittore e il suo soggetto, resuscita il mito dell’autore di New Orleans (nella sorprendente interpretazione di Philip Seymour Hoffmann, che non dovrebbe essere doppiata per legge) e traduce dal quel passato la presente contrapposizione tra due Americhe diverse. Convincendo il direttore del New Yorker, Wallace Shawn (Bob Balaban), a lasciargli seguire la storia dell’incomprensibile massacro di una famiglia del Kansas, avvenuto nel 1959, Capote partì alla volta del Midwest accompagnato solo da Nelle Harper Lee (l’autrice di To Kill a Mockinbird, tradotto in Italia «Il buio oltre la siepe, è interpretata da Catherine Keener) e dal suo intuito.

Vederlo penetrare l’ineffabile, orgogliosa, diffidenza di una piccola comunità rurale, investigare la vita degli austeri, protestanti, signori Clutter prima di essere ammazzati e, infine, osservarlo mentre cerca di entrare nella testa dei due ex galeotti che uccisero quasi per inettitudine un’intera famiglia, è vederlo scoprire un mondo inafferrabile sulla East Coat. Non a caso In Cold Blood - pubblicato prima a puntate sul New Yorker, e poi nel 1969 - è ancora considerato la pietra miliare del nuovo giornalismo Usa (era difficile non pensarci nelle sequenza d’apertura di un altro recente film sulle fondamenta degli Usa, A History of Violence).

Anche James Mangold, con Walk the Line, addossandosi il difficile compito di raccontare la storia di Johnny Cash (ma solo fino al 1968, anno in cui sposò June Carter e tenne il famoso concerto alla prigione di Folsom), tenta un’operazione al limite dell’antropologia. Probabilmente, al contrario di Capote, non è dotato dell’occhio, del cuore e dei demoni per fare giustizia nella complessità del suo quadro, ma anche il suo è un film «d’esplorazione», una viaggio nella bible belt, e nella musica di Cash (interpretato da Joaquim Phoenix mentre Reese Whiterspoon è Carter) in quel suo crocicchio inafferrabile di religione, violenza, spirito d’avventura, ottusità, dolore, arte e passione. Che è poi gran parte di ciò che continua a restare misterioso nel cuore di tenebra degli States.

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