Home > Uranio impoverito, suona il silenzio
Ad un mese dalla denuncia dell’associazione dei carabinieri ancora nessuna risposta, ma si allunga la lista delle prove
«Ci hanno segnalato che 19 nostri colleghi di ritorno dall’Iraq sarebbero stati ricoverati al reparto oncologico del policlinico militare romano del Celio. Alcuni di loro in cura, altri in osservazione». Senza mezze misure Antonio Savino, segretario nazionale dell’Unac, Unione arma dei carabinieri, denunciava a Liberazione il 30 giugno scorso: «E abbiamo il timore che questi ragazzi possano essere stati colpiti da tumori o gravi patologie a causa di una contaminazione da uranio impoverito». La stessa denuncia dell’Unac, con le stesse parole di Savino, ripresa ieri da Repubblica dimostra che il lavoro di documentazione portato avanti negli ultimi anni dai pochi media come appunto Liberazione, il Manifesto e soprattutto Sigfrido Ranucci con i suoi servizi messi in onda da Rainews24, si fa interessante anche per chi fino ad oggi ha preferito soprassedere alla gravità dei fatti.
Comunque il Celio non ha ancora smentito questa notizia, conferma Savino a Liberazione: «E’ vero non ha fornito, dietro nostra richiesta, i nomi dei ricoverati e continua a negare l’accesso ai rappresentanti dell’associazione». Però, proprio in questi giorni, un colonnello medico dell’ospedale militare un passo falso l’ha fatto: si è presentato con tanto di ambulanza all’albergo romano che ospitava Marco Diana, il maresciallo dell’esercito, gravemente malato, che martedì scorso era a Roma per la conferenza stampa organizzata al Senato da Rifondazione comunista - presente Savino per l’Unac, Accame dell’Anavafaf, i senatori Nieddu (Ds) e Malabarba (Prc) familiari delle vittime e militari ammalati - per testimoniare i devastanti effetti collaterali dell’uranio impoverito. In quell’occasione Diana ha ricordato che «i nostri ragazzi in missione di pace operavano in genere a torso nudo e in calzoncini corti e quando erano in missione adottavano un giubbotto anti proiettile. Le uniche norme di protezione previste erano in un libretto tascabile e riguardavano soprattutto le punture di insetti e le malattie tropicali».
Diana si è rifiutato di seguire il colonello medico e quest’ultimo ha giustificato il suo "intervento" sostenendo di essere stato chiamato. Da chi? Non dal diretto interessato e tanto meno dai suoi accompagnatori. Certo è che l’episodio conferma i sospetti del maresciallo Savino: una volta ricoverati al Celio, Diana e gli altri, non possono avere contatti con l’esterno. Perché? Se è colpa dell’uranio impoverito perché tenerli nascosti? Michele Garau, segretario regionale e legale dell’Unac proprio il 30 giugno scorso denunciava: «Sono stato al Celio una ventina di giorni fa ma appena arriviamo noi le porte si chiudono. Ho chiesto di parlare con i responsabili dell’ospedale, nulla di fatto».
Eppure la circolare della Brigata multinazionale West del 22 novembre 1999 diffusa in Kosovo recita: «L’inalazione delle polveri insolubili di uranio impoverito è stata associata con effetti a lungo termine sulla salute, compresi tumori e malformazioni nei neonati». Ma i proiettili all’uranio impoverito (Depleted Uranium, DU) sono ancora a "lavoro". In gergo militare si nascondono dietro la definizione "testate di metalli duri" - spiegano gli addetti ai lavori -, acciai o metalli trattati all’uranio impoverito per essere usate come bombe perforanti di carri armati o altro. Proprio l’esposizione alle polveri radioattive delle mini bombe o proiettili all’uranio altamente perforanti avrebbe causato la morte di 26 soldati italiani e la malattia di altri 240, ma anche neonati malformati, sterilità, tra i civili residenti ai confini con i poligoni in Sardegna, come nei Balcani.
Sabrina Deligia sabrina.deligia@liberazione. it