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"Vi spiego il dio di noi ultrà" viaggio tra i violenti del calcio

Publie le lunedì 19 novembre 2007 par Open-Publishing
12 commenti

"LO SCONTRO è la nostra droga. Tutti gli ultrà cercano lo scontro. È una cosa che hai dentro, che ti sale su mano a mano che si avvicina la partita. Quando devi farti rispettare in una città che non è la tua. Oppure quando arrivano gli avversari in trasferta, ché alle dieci sei già lì, sul piazzale dello stadio. È la difesa del tuo territorio. La voglia di picchiarsi col nemico. Fargli capire che qui comandi tu. Ma - dice "Bocia", il capo, uno dei sacerdoti del nuovo rito curvaiolo - lo scontro non nasce dalla delinquenza; nasce dalla passione, dal cuore. E deve essere leale, non un’infamata. Se non sei un ultrà questa cosa non la capirai mai. Anzi, ti fa schifo. Noi invece cerchiamo di tramandarla, assieme ai nostri valori, condivisibili o no. Questa è la vita che abbiamo scelto. Così vivremo finché esisteremo".
Per entrare al "Covo", come lo chiamano loro, i monoteisti del tifo, devi salire una scala di ferro arrampicata sulla parete laterale di una concessionaria di automobili. Superi una porta di vetro tappezzata di adesivi nerazzurri e ecco un muro umano, una massa compatta di ragazzi in jeans e giubbotto radunati come militari in uno stanzone arredato con murales e bandiere e sciarpe e grandi foto che raccontano la storia del tifo organizzato atalantino. Di colpo sei inghiottito da un silenzio irreale.

Un silenzio rotto solo dalle parole del capo. Il "Bocia", al secolo Claudio Galimberti, 35 anni, faccia e modi da Braveheart di provincia, giardiniere, leader della Curva Nord dell’Atalanta. Al "Covo", una specie di tempio pagano, il pasdaran da stadio è indottrinato sui temi portanti della sua fede, della sua esistenza al limite. Si parla di "presenza" da fare, di orari di treni e pullman, di collette, di striscioni, di processi penali e mediatici, di droghe "buone" e droghe "non buone", di tifo organizzato, di "odiosa repressione", di "giornalisti infami". Tutti ascoltano muti. Odore denso di fumo. Operai. Universitari figli di papà. Impiegati. Insospettabili professionisti. Disoccupati e gente che sgobba 15 ore al giorno, e se c’è da seguire la squadra a Palermo, il lunedì si torna in fabbrica dopo avere attraversato l’Italia.

C’è anche qualche donna, una porta capelli viola fino alle spalle. Bocia sta seduto al centro. Intorno, il direttivo: una decina di persone, i luogotenenti. Tutte le curve hanno un capo e un direttivo. Eletti senza primarie. E migliaia di soldati semplici. Divisi in sezioni ognuna con un compito da portare avanti: coreografie, scontri, organizzazione dei viaggi, rapporti (solitamente complicati) con Digos e questura. Un sistema gerarchico, chiuso a riccio, impermeabile all’esterno. "Allora, adesso sotto con la trasferta...": Bocia istruisce decine di ragazzi su come affrontare un esodo "caldo". Quando l’Atalanta gioca fuori casa i suoi ultrà vengono quasi sempre accolti in modo non esattamente ospitale; loro sanno che è così, in fondo, spesso, non chiedono di meglio. "Occhi aperti e niente cazzate", sono i consigli per l’uso. "Perché quando ti scontri devi avere la mentalità giusta. Se un avversario cade a terra non devi infierire. Devi rispettarlo. E niente coltelli né bombe. Il problema è che oggi la violenza ha raggiunto livelli altissimi. Non sai mai chi incontri. Cosa ti può capitare. Ci sono gruppi che girano con la pistola in tasca... ".

Già, la pistola. E Gabriele Sandri, e l’autogrill, e il poliziotto, e la rivolta delle banlieue da stadio: parli con gli adepti del tifo e davanti ti scorrono le immagini dell’ultima domenica bestiale. Gli ultrà bergamaschi che assieme ai colleghi milanisti assaltano la polizia fuori dallo stadio (a Bergamo si giocava Atalanta-Milan); che esercitano il loro potere esecutivo imponendo lo stop alla partita. Il come si sa: sfondando con un tombino la vetrata che separa la curva dal terreno di gioco. "C’era tanta confusione. Forse il tombino è stato un errore - ammette Bocia - ma bloccare tutto era un dovere morale: e noi l’abbiamo fatto, anche se con modi discutibili. Il calcio doveva fermarsi per Sandri, come si è fermato per Raciti".

È un mondo aspro e selvaggio quello degli ultrà. Per conoscerlo da dentro, per comprenderne le logiche informi, l’anarchia, le derive incendiarie, bisogna andare a vedere da vicino: non farsi impressionare dalla ruvidità di certe facce, di certe scene. E poi i toni, le abitudini cameratesche e carbonaresche che scandiscono la preparazione della "partita". Quello che a loro pare normale, a te sembra "fuori". È possibile impacchettare dentro la stessa bandiera le sassaiola contro un treno e le collette per le scuole del Ruanda? Le sprangate per strada e la raccolta fondi per la distrofia muscolare? E viaggiare per quindici ore su un treno tipo carro bestiame, presi in consegna da una teoria di poliziotti armati, scortati in mezzo a una città a bordo di pullman coi finestrini sbarrati con reti di ferro e infine, se va bene, tenuti dentro lo stadio per due ore finita la partita e rispediti a casa magari dopo aver preso una pietra in testa o una messe di manganellate? Saranno 500 o 600 qui al "Covo". Due o tre riunioni la settimana. Un mini esercito in servizio permanente sui gradoni di una curva infuocata, temuta, oltranzista, rispettata. Colpita come molte altre da una pioggia di "Daspo", il provvedimento che vieta ai supporter violenti beccati in flagrante di assistere a manifestazioni sportive per un periodo che va da 1 a 3 anni.

Per gli incidenti dell’11 novembre sono arrivati sette arresti. Il presidente dell’Atalanta Ivan Ruggeri ha puntato il dito contro la curva: "Sono delinquenti che non voglio più vedere allo stadio". Il comunicato era firmato anche dai giocatori, che però tre giorni dopo, tra qualche imbarazzo, hanno tirato il freno: "Isoliamo i violenti, ma non criminalizziamo la Curva Nord che ci ha dato e ci dà tanto". "Era il minimo che potevano fare...", dice ora un po’ sardonico Bocia. "Adesso comunque staremo fermi per un po’, dobbiamo fare quadrato, ma la nostra mentalità non cambia". Il clima che si respira piacerebbe a Chuck Palahniuk, l’autore di Fight club e anche all’hooligan-scrittore inglese Cass Pennant, ma qui al Covo, almeno qui, non ci si prende a pugni né a calci. Semmai capita che pugni e calci si programmano o si commentano. "Oltre alla fede per la squadra, la cosa più importante per noi è il rispetto - spiega il leader della Nord - E rispetto vuol dire anche scontrarsi. Anzi, è la base". È la prima volta che un capo ultrà ci mette la faccia e riconosce che "sì, noi i casini ce li cerchiamo anche quando non ci sono. Romanisti, viola, granata, genoani: con tutte queste tifoserie vogliamo picchiarci. È così, non c’è niente da fare". Lui è uno di quelli che allo stadio non può andare. Il prossimo è il suo dodicesimo campionato da diffidato. "A fasi alterne, ovviamente". La domenica gioca a calcio: Bonate Sopra, prima categoria. E anche qui qualche guaio se lo tira addosso. Come il 9 settembre scorso a Cologno Monzese. Un centinaio di ultrà dell’Inter gli preparano un agguato. Sono lì per vendicare un assalto al loro treno diretto a Bergamo, campionato 2006-2007. Contro il pullman del Bonate partono sassi e bottiglie. A bordo ci sono anche donne e bambini. Ma soprattutto c’è lui, Galimberti. "Il nostro mondo è fatto anche di queste cose. Certe volte dimostri la tua superiorità cantando più forte degli altri. O presentandoti in gran numero in una trasferta. Se facciamo mille chilometri e andiamo a Napoli in 500 magari ci tirano addosso le bombe carta, però come nemici sanno che siamo rispettati".

La curva atalantina un tempo era "rossa". Negli anni ’80 è stata filoleghista. Oggi è rigorosamente "apolitica". Seimila ultrà. Mille lo zoccolo duro, quello che c’è ovunque e comunque. Che vive per la squadra, per il tifo. Come Danilo, 41 anni, operaio. Uno dei colonnelli. "La "mentalità ultras" sta scomparendo - dice - Ci sono curve che hanno fatto la storia di questo movimento che non hanno più codici di comportamento. Si sono sputtanate per gli affari commerciali, si sparano per un pugno di biglietti omaggio, mandano avanti i ragazzini coi coltelli. Questo è vergognoso".

I seguaci della Dea (la dea Atalanta), come amano definirsi, hanno pochi rapporti di amicizia (Ternana, Cosenza, Eintracht Francoforte, Cavese) e moltissime rivalità. Praticamente con tutte le tifoserie. Il momento sociale per eccellenza è la Festa della Dea, l’omaggio al "totem" Atalanta. "Ogni estate facciamo 10 mila persone a sera. Vengono i giocatori, quelli di oggi e quelli di ieri. Si beve birra, si canta in piedi sui tavoli", spiega Daniele Belotti, 39 anni di cui 33 in curva, consigliere comunale e regionale leghista ("ma la politica non c’entra"). Ha scritto un libro, Belotti, "Atalanta folle amore nostro", che ripercorre 35 anni di tifo. "La Nord un tempo era considerata un covo di violenti e emarginati. Oggi coinvolge nelle sue iniziative decine di migliaia di bergamaschi. Gente che prima ci guardava con distacco e un certo timore".
"Bocia" Galimberti ascolta, annuisce, si tormenta la barba. Poi stappa una birra. Dice che in testa ha un pensiero fisso: i napoletani. "Se il Viminale non vieta la trasferta, li aspetto a Bergamo. Noi da loro andremo, sicuro, sempre che lo Stato ce lo permetta". Lui non potrà esserci, ma saprà tutto dal primo all’ultimo minuto. Perché la curva ha tante radio. Che messe assieme formano una specie di grande ugola indisciplinata. Bocia si alza in piedi, porge la Ceres a Daniele e, scandendo il ritmo con le mani aperte a tamburo, lancia un coro che fa rimbombare il Covo: "A-ta-lan-ta olè... ". Subito dopo, a mo’ di litania liturgica, parte un fragoroso "Bergamo, Bergamo...". Una città da difendere, cento città dove "farsi rispettare".

Repubblica.it
di PAOLO BERIZZI

Messaggi

  • Qualcuno su questo sito ha ironizzato sul fatto che la mentalità ultras possa definirsi frutto di "sub-cultura" metropolitana, accusando di intellettualismo e di spocchiosa ed elitaria visione della società chi sosteneva questa tesi.

    Dalla lettura di quest’articolo, che peraltro contiene argomenti arcinoti e risaputi, mi pare che già attribuire al fenomeno una valenza "sub-culturale" sia un immeritato ed arbitrario riconoscimento allo stesso di un contenuto seppur vagamente sociale.

    Pur senza scomodare la sociologia è più che evidente che la formazione dei gruppi "ultras", richiama alla mente forme di aggregazione di tipo tribale e di natura iniziatica, tipiche di etnie ataviche precivilizzate in cui dominava la figura dello sciamano ed in cui non esistevano ancora sistemi di valori e codici di comportamento ben definiti.

    Nelle curve si predica e si pratica la violenza in forma pura, senza secondi fini se non quello di darsi un’identità e potersi riconoscersi in un gruppo non più informale ma strutturato e con proprie precise gerarchie.

    Dove tutto questo possa portare non è facile a dirsi : sicuramente però tutto questo non può essere minimamente apparentato a quelle forme di protesta giovanile e di contestazione dello stato borghese , che partivano da presupposti ideologici, talvolta anche errati e velleitari, ma che
    comunque scaturivano da una razionale interpretazione dei fenomeni sociali e politici e che erano sempre animati da una forte e consapevole tensione ideale.

    MaxVinella

    • A parte il fatto che l’articolo in questione è una "nota di colore" presente sulla "Repubblica" di oggi e come tale va presa .... c’è anche da dire che il club bergamasco visitato dal cronista in cerca di brividi del quotidiano ex scalfariano non è per niente rappresentativo della curva bergamasca ....

      E comunque, al di là del consigliere leghista presente in sede, non ha assolutamente nulla a che vedere con militanze fascistoidi, sicuramente assai più presenti ed egemoni nella vicina milano, soprattutto nel versante interista.

      Sono ovviamente d’accordo sul carattere "tribale" che indubbiamente caratterizza ogni forma ultras, persino quelle, come Livorno, Terni, Venezia o Cosenza, dove si cantano a squarciagola "Bella Ciao" e "Bandiera Rossa".

      Ma non hanno in fondo identiche caratteristiche i gruppi giovanili della rivolta delle banlieues parigine o marsigliesi, come le avevano i rappers della rivolta di Chicago degli anni novanta, certe "bande ribelli metropolitane" che furono protagoniste del movimento del 1977 o certi gruppi politici di afroamaricani come sono stati le Black Panthers o il Potere Nero ?

      Vogliamo poi parlare di Santiago del Cile dove ogni 11 settembre, nell’anniversario del golpe, le bande di malavita dei barrios - indipendentemente se le sinistre hanno o no indetto manifestazioni - si scatenano regolarmente contro la polizia ( quest’anno un "carabinero" ucciso a colpi di lupara ?).

      E che dire dei primi maggi berlinesi, dove ancora prima che i cortei degli "autonomen" partano, già i "lumpen" hanno regolarmente scatenato gli scontri con la "polizai" ?

      Sarà meglio, come già giustamente si teorizzava nei settanta, che questo immenso "esercito operaio di riserva" abbia naturali simpatie per la sinistra, come avveniva allora, al tempo in cui anche per il Pci i poliziotti erano "la truppa che difende la trippa di chi ha troppo" ? O si preferisce schizzinosamente ( ma più spesso in nome della sostanziale accettazione delle logiche di mercato, vedi PD) che divengano massa di manovra per le peggiori avventure destrorse, razziste o nazistoidi ?

      E comunque, se un poliziotto ammazza a sangue freddo in una vera e propria esecuzione sommaria un "tifoso"( peraltro nemmeno "lumpen" e tantomeno fascista) sta cazzo di sinistra sarà pure in grado di dire che si tratta appunto di un inutile "omicidio di stato", senza dovere spaccare per questo il capello in quattro ?

      K.

    • link: www.agitproponline.com/plebe/

      La coerenza sorprendente

      A Gabriele Sandri, a Valerio Marchi

      Sul sito di Repubblica c’è una sezione apposita: Saluti romani al funerale
      di Gabbo, si chiama. Per fugare embrionali empatie. RaiTre, dopo
      un’occasionale sferzata al conformismo dell’informazione a botta calda, per
      giorni ha sottolineato che gli incidenti seguiti alla morte del tifoso
      laziale sono stati egemonizzati (e forse pianificati e pilotati) da ultras
      di estrema destra. Di "neofascisti" (oltre che di recuperati
      "anarcoinsurrezionalisti") hanno parlato anche i responsabili dell’ordine
      pubblico. A confermare ciò che ai più appare ovvio: nelle curve le destre
      trasformano il populismo in fascismo come l’acqua in vino. E la sinistra
      benpensante, chimicamente affine ai benpensanti di parte avversa, si copre
      di sdegno. Sente di non potervisi avvicinare. E illustra una tesi ovvia con
      l’aria sagace di chi scopre che il freddo porta a malanni bronchiali.

      Secondo costoro è bene non mescolare l’indignazione e la rabbia derivanti
      dall’ennesimo morto ammazzato per un paio di "colpi in aria" di un tutore
      dell’ordine con la premeditazione, tutta politica, degli scontri del dopo.
      Per non finire catalogati come mussoliniani fuori tempo massimo,
      terzoposizionisti a caccia di consensi tra i ragazzini inviperiti. E
      avallando la versione che le piazze siano ormai apertamente in mano ai
      nostalgici della dittatura, sottoscrivono d’un botto tre tesi deliranti:
      quella cara a Roberto Fiore della destra radicale come unica opposizione,
      quella della magistratura per cui si trattano i fermati come terroristi in
      servizio effettivo permanente, e quella del ministro Amato secondo cui gli
      eversori dell’ordine democratico che s’annidano nei settori popolari degli
      stadi non aspettavano che una scintilla, un pretesto, per scatenare
      l’inferno. Tre errori madornali, tre istigazioni al suicidio politico,
      esplicativi oltre ogni dubbio della differenza di dna che intercorre tra noi
      e loro. Elitari, colti e imborghesiti, i nostri sinistri di facciata,
      incapaci per oggettiva distanza siderale di leggere un fenomeno, di
      coglierlo nella sua interezza, di valutarne le conseguenze. Dovremmo
      scrollarci di dosso simili filiazioni, se vogliamo sopravvivere alla montata
      lattea.

      Rewind

      Un ragazzo cade sotto i colpi di uno psicopatico in divisa che decide di
      dirimere una zuffa da autogrill prendendo la mira da cinquanta metri e
      centrando un’auto con quattro corsie d’autostrada in mezzo. È già successo.
      A Napoli si muore così in motorino, ai posti di blocco. E quando non succede
      proprio così, il dato non cambia. Ad Avellino si cade nel vuoto per sfuggire
      alle cariche d’alleggerimento, a Bergamo si crepa d’infarto dinanzi all’orda
      sbirresca in avvicinamento. A Verona, quando non si muore, si rimane in
      coma. Il dato, nella sua piana brutalità, meriterebbe tavole rotonde e
      dibattiti sociologici specifici dal tema: cosa si intende per ordine
      pubblico? Cosa si intende allo stadio per ordine pubblico? Ma invece di
      analizzare queste fantasmagoriche prove di self control degli osannatissimi
      servitori dello Stato, la tv italiana dà il meglio di sé per intere
      giornate, precettando tutti i volti noti dell’intrattenimento di bassa lega,
      tutte le soubrettine e i criminologi da bar sport. Si discute di violenza
      negli stadi, di giovani sbandati, di vuoto ideale. Si suggeriscono, si
      invocano, si pretendono atti restrittivi, repressioni, arresti di massa,
      scioglimenti di sodalizi. Cossiga si fa portavoce di quei nostalgici che
      rimpiangono la smitragliata nel mucchio. I leghisti lo innalzano sugli scudi
      (celtici). Prima ancora di appurare verità che potrebbero apparire scomode,
      la macina televisiva appiattisce l’opinione condivisa: massimo rispetto per
      le forze dell’ordine, massima ferocia punitiva per gli ultras. Gli ultras.
      Questi strani soggetti, questi vuoti a perdere, utili a spaventare l’uomo
      medio, il target di riferimento, l’ignobile medioborghese da
      elettrodomestico e pizza d’asporto. Come i rumeni, come i brigatisti, come
      gli zingari. Spettri in rapida dissolvenza, buoni per ogni occasione, ottimi
      per stimolare le ansie golpiste della nazione e i giri di vite umorali. Il
      fascismo teledipendente che allaga di pregiudizi di terza mano gli autobus
      urbani e l’agenzie delle entrate. Da sinistra non si abbozza nessuna analisi
      stonata, ci si allinea con gusto, si intonano i colori del pullover al
      manganellismo dominante. Si comprende la gravità di quanto accaduto, certo,
      si stigmatizza l’esagerazione mediatica, ma poi - a conti fatti - si torna a
      dipingere fantasmi sullo schermo. Bruti da galleria degli orrori,
      accertandosi di estrapolare il solo morto dal mazzo. Per italico rispetto al
      defunto. Ma dinanzi alle scene di guerriglia metropolitana della notte
      romana, o agli scontri di Bergamo e Taranto, prevale l’orrore. La ripulsa
      per la risposta irrazionale, lo scoppio di bile, la voglia di riscatto di
      chi vede nella morte di un tifoso l’ennesimo tassello di una guerra
      clandestina, sotterranea, a bassa intensità. Saranno vittimisti questi
      ultras arrabbiati, ma la loro reazione è assolutamente comprensibile.
      Nessuno scandalo. E dinanzi al quindicenne che sente di dover scaricare in
      adrenalina il peso dell’ingiustizia di una morte arrogante, la sinistra alza
      cartelli legalitari. Non sa che farsene, e lo spedisce dritto tra le braccia
      di quegli energumeni vestiti di nero, di quei fascisti che RaiTre e
      Repubblica ritengono i soli in grado di dar fuoco alle polveri della
      rivolta. La più classica fine da pompiere degli incendiari d’antan, che si
      perdono nei meandri dei distinguo quando gli si fa notare che le curve altro
      non sono che la risultante storicizzata di quanto accade nelle vie che le
      circondano. Che alla nullità, al vuoto ideologico e ideale, al rampantismo
      ottenebrato della sinistra di palazzo e di bottega non può che corrispondere
      il vuoto e il nulla. Domenica notte non è stata la prova di forza di una
      destra in gran spolvero. Nelle strade di Roma non c’era solo la rabbia
      forsennata (e giustificata) di quattro naziskin. C’era ben altro. Dell’altro
      che non riusciremo mai a focalizzare se ci ostiniamo a pendere dagli
      occhiali vintage di certa intellighenzia progressista.

      La tesi

      Non c’è bisogno di rispolverare gli ammuffiti comunicati di Radio Tirana
      sulla rivolta di Reggio Calabria. Né di ripercorrere a ritroso quanto già
      detto sul cosiddetto "fenomeno ultras" o sulle leggi d’emergenza vigenti
      negli stadi d’Italia. O di invitare allo studio attento delle sudate carte
      di un Valerio Marchi, o alle letture puntuali e documentate di un Emilio
      Quadrelli. E neppure di conseguire frettolose lauree in Antropologia
      culturale per comprendere che non esistono rivolte oggettivamente
      "fasciste", doverosamente snobabili dopo etichettature pret-a-porter. Che
      una cosa è soffermarsi sull’humus, sulla qualità del terreno da cui
      fuoriescono i frutti acerbi della contestazione viscerale (e che può essere,
      e il più delle volte è, sgradevole come il guano), e altra cosa è
      comprendere che non esistono analisi che non includano nel novero delle
      ipotesi il nostro ruolo, che di antagonismo sociale ha il nome e la forma ma
      troppe volte non la conseguenza. La protesta di piazza ad uno stato di cose
      inaccettabile e indegno può sembrare "fascista" ai neofiti solo per abuso di
      bei propositi. Non si intercetta il malessere, anche il più motivato, anche
      quello più "alto", in contumacia. E se si perdono di vista i gangli vitali
      della vita reale, i meccanismi che muovono allo sconcerto e alla
      conflittualità, ci si arrende ad una mesta agonia autorefenziale. Che può
      essere anche soddisfacente dal punto di vista intellettuale, come forma di
      nutrimento dell’ego. Ma è del tutto ininfluente (quando non dannosa) se si
      hanno ancora scopi e progetti collettivi. Bisogna scrollarsi di dosso i
      preconcetti mutuati dal video, le verità in usufrutto gratuito, le visioni
      dal fondo forgiate nei salotti della buona politica, utile e adulta. E
      tornare a quello che siamo: agitatori di situazioni, capaci di leggere un
      fatto dietro la coltre di nebbia delle saccenze intellettualoidi, oltre lo
      specchio deformante dei pareri strumentali.

      Basterebbero le insorgenze securitarie, le vibrazioni repressive, le
      limitazioni poliziesche ventilate e attuate dopo l’omicidio di un ragazzo di
      ventotto anni, per comprendere che in ballo non c’è la libertà degli ultras
      di devastare le metropoli o di continuare a fare proselitismo razzista. Così
      come in passato non è mai stata in ballo quella dei rumeni di struprare
      mogli e madri di famiglia, o degli zingari di accamparsi in periferia e
      derubare gli anziani in metro. Ma il nostro stesso concetto di libertà,
      l’idea che ci siamo fatti circa l’edificazione di ghetti monoculturali ed
      etero-repressi, a due passi dalla nostra idilliaca sezione, dal nostro club
      privato, dalla nostra osteria o dal centro sociale sotto casa. Basterebbe
      una lettura con altri occhi di quanto avvenuto dopo la morte di Gabriele
      Sandri - dj di buona famiglia, tifoso della Lazio, animatore della Roma bene
      ed elettore di Forza Italia - per farci scegliere la nostra parte di
      barricata. Per spingere gli scettici e i puri a prendere posizione. Una
      posizione sorprendente, eppure culmine della coerenza.

      *Plebe n.24 - secondo estratto

      www.agitproponline.com/plebe/

    • Max:

      //Qualcuno su questo sito ha ironizzato sul fatto che la mentalità ultras possa definirsi frutto di "sub-cultura" metropolitana, accusando di intellettualismo e di spocchiosa ed elitaria visione della società chi sosteneva questa tesi..//

      Caro Max, sono sicuro che ti stai riferendo a me. Ma io non ho sostenuto che la mentalità ultras non fosse definibile come subcultura, me la prendevo solo con la spocchia di chi incasellava come sub-cultura ciò che non va d’accordo con la sua personale definizione di "mentalità rivoluzionaria", riducibile in ultima istanza a una manciata di citazioni di Adorno e Horkheimer (grandi leader di rivoluzioni di successo, come è noto).

      //Dalla lettura di quest’articolo, che peraltro contiene argomenti arcinoti e risaputi, mi pare che già attribuire al fenomeno una valenza "sub-culturale" sia un immeritato ed arbitrario riconoscimento allo stesso di un contenuto seppur vagamente sociale.//

      Mica ci starebbe male qui la definizione della nozione di subcultura. Sarebbe simpatico che essa non rispecchiasse già nelle premesse i pregiudizi di chi la usa. Le canzoni di Fabrizio de André sono sub-cultura nel momento in cui vengono usate per la costruzione di un linguaggio politico protestatario, ma questo non significa che in quanto sub-culturali non abbiano valore.

      //Pur senza scomodare la sociologia è più che evidente che la formazione dei gruppi "ultras", richiama alla mente forme di aggregazione di tipo tribale e di natura iniziatica, tipiche di etnie ataviche precivilizzate in cui dominava la figura dello sciamano ed in cui non esistevano ancora sistemi di valori e codici di comportamento ben definiti.//

      E questo è un bel salto alle origini dell’etnografia vittoriana, quando i colonizzatori bianchi, usando un linguaggio scientista per dare maggiore rispettabilità ai pregiudizi razziali alla base della predazione europea, cercavano di giustificare la pratica coloniale. Estremamente rivelatore del tuo commento è l’idea che le culture sciamaniche non avessero "sistemi di valori e codici di comportamento ben definiti". Che è una grande stronzata. Non erano indefiniti, erano solo diversi da quelli del grande padrone bianco.

      //Nelle curve si predica e si pratica la violenza in forma pura, senza secondi fini se non quello di darsi un’identità e potersi riconoscersi in un gruppo non più informale ma strutturato e con proprie precise gerarchie.//

      Forse alla Scuola di Francoforte non interessa conoscere la radice dei problemi, preferendo fermarsi al semplice anatema papale. Io vado oltre e mi pongo domande: perché sorge una pratica di violenza dalle valenze identitarie? Ed è possibile che i simboli su cui si impernia abbiano qualche relazione con il conflitto sociale immanente? Non è possibile che la violenza da stadio sia una forma di sfogo ed espressione di rabbia sociale?

      //Dove tutto questo possa portare non è facile a dirsi : sicuramente però tutto questo non può essere minimamente apparentato a quelle forme di protesta giovanile e di contestazione dello stato borghese , che partivano da presupposti ideologici, talvolta anche errati e velleitari, ma che comunque scaturivano da una razionale interpretazione dei fenomeni sociali e politici e che erano sempre animati da una forte e consapevole tensione ideale.//

      Ma chi è che stabilisce le leggi dell’"apparentamento" alle forme di "contestazione dello stato borghese", come se fossero le leggi dell’ereditarietà di Mendel? Come si può avere una simile supponenza autoritaria? Il fenomeno delle plebi sanfediste, manovrate dala Chiesa, nell’Italia scossa dalle febbri giacobine della Rivoluzione Francese era espressione anche dell’incapacità della cultura illuministica di cercare di vedere il mondo con gli occhi di un contadino calabrese o pugliese, a cui se toglievi la religione toglievi tutto. Ci si impanca a interpreti autorizzati della cultura rivoluzionaria e non si è appreso neanche queste elementari lezioni della storia.

      Gianluca

      http://achtungbanditen.splinder.com/

  • Mah ! Mi pareva di avere le idee abbastanza chiare sul fenomeno tifo violento , ma ora vengo travolto da citazioni dotte e note a piè pagina . Il problema della mia lunga vita è che in sostanza mi pare che le analisi fini siano un esercizio dialettico se non retorico dierto il quale perdersi dolcemente , autocompiacendosi e gratificandosi.

    Il fenomeno degli hooligan è stato plurianalizzato da un punto di vista sociologico e psicologico , se non psichiatrico , sopratutto , a quanto mi risulta , in Inghilterra in Olanda ed in Germania e su questo possiamo sbizzarirci con altrettante citazioni dotte : ma mi pare che il problema attuale sia diverso.

    Muore un individuo assassinato da un poliziotto rambo e coglione , salvo non si voglia sostenere che costui abbia mirato per uccidere proprio quello lì, il tifoso della lazio piuttosto che un ragioniere di Perugia in gita verso Firenze . Si tratta di quella che una volta si diceva una disgrazia voluta ,e giustamente il poliziotto verrà processato per omicidio volontario, perchè sparando a mani tese si è assunto il rischio di colpire qualcuno : non premeditato per motivi che mi pare inutile raccontare.

    Da tale episodio che ha avuto una vittima accidentale, fuori da un contesto di tifo o di ultrà ( ripeto, il proiettile poteva anche colpire un’autovettura che transitava per l’autostrada ) , omicidio diverso da quello del poliziotto che a sangue freddo spara al ragazzino in motorino che a Napoli salta il posto di blocco, si scatena un assalto a Polizia, CC, vigili urbani ( vigili urbani!!!!!) in nome della solidarietà di curva e di tifo ; tutti insieme , a prescindere dal colore della squadra ( perchè compagni , qui si parla di squadre di calcio, del Pergocrema piuttosto che della Salernitana) per vendicare il tifoso della Lazio .

    E alè i mass media ,che non vedono l’ora di fare qualche bel servizio e riempire palinsesti ,a parlare non di un giovane DJ, ma di un giovane tifoso laziale , come se il sottoscritto, vecchio cuore Juventino , venisse ricordato per la propria ammirazione nei confronti di Anastasi o Del Piero piuttosto che per quello che ha fatto in oltre mezzo secolo.

    Adesso si dice che , al di là delle valutazioni se quella degli ultras sia sub - cultura , cultura o niente , comunque bisogna stare dalla parte opposta alla polizia , perchè comunque , mi pare di capire , dalle analisi emerge che la colpa è del sistema produttivo e che comunque la polizia è fatta di boia ; da ciò solidarietà a chi ha menato a Roma i vigili urbani e massima comprensione per gli arrestati .

    Ma compagni, un po’ di calma : la violenza c’è da sempre , dalla nascita della storia , qualunque sia stato il sistema produttivo , il momento storico ; la vita ifino alla fine del XIX secolo nulla valeva , in Sardegna ( e non me ne vogliano i compagni sardi ) come si legge nelle cronache giudiziarie, l’omicidio fino agli anni trenta era ahimè diffuso in misura non ora immaginabile . Il problema è se la Sinistra , meglio se il movimento che si riconosce nei lavoratori , perchè di sinistra si dicon tutti, a fronte delle violenze da stadio si debba schierare . E la risposta mi pare ovvia è una sola : ci si schiera contro!!!!!!!

    ciò non vuol dire essere forcaioli , ma ritenere che la violenza sia comunque segno di ribellione e quindi sempre dalla parte giusta è un furibondo errore . L’ "assalto ai forni " di domenica l’altra era gratuito , non giustificato , privo di motivazione ; un mero sfoggio di violenza con gravi venature di infantilismo ; una violenza nichilista che serve solo a chi ha in mano il potere per reprimere , colpire, con l’assenso di tutti , perchè la gente normale , quella che ha vissuto e vive ,detesta la violenza ed applaude i poliziotti che mettono a posto i violenti spaccando loro la testa .

    A me interessa sì salvare i violenti delle periferie, anche se l’Italia non è fatta vivaddio solo da periferie e vi sono ragazzi di periferia che vivono normalmente e non al limite, ma interessa la gente comune ; fra la gente e costoro , i tifosi malati di dannunzianesimo con un’ideologia confusa , un sistema di organizzaizone tribale , dei rompicoglioni che rendono pericoloso l’andare allo stadio, che hanno i loro riti, le loro ricorrenze ed i loro eroi , noin v’è dubbio con chi mi schiero : e con si deve schierare la sinistra . Socialismo è pace e fratellanza , la violenza soilamente un rimedio estremo per un male estremo. E così il problema degli hooligan si limita ad essere di ordine pubblico.

    Buster Brown

  • senza scomodare tanta teoria e tanta sociologia, a me questi qui mi sembrano semplicemente una manica di teste di cazzo.

    • E i poliziotti di Napoli e Genova, e quello dell’autogrill, invece cosa sono ?

    • Ed il questore che per una intera giornata ha ripetuto l’assurda litania "Due colpi in aria, uno dei quali per tragica fatalità ha colpito il giovane" ?

      E il portavoce della polizia che, sostenendo la stessa cazzata, ha organizzato una conferenza-stampa dove era vietato fare domande ?

      E le puttanate di Amato, peraltro capo del governo ai tempi della mattanza di Napoli - Marzo 2001 ?

      Questi non sono emeriti teste di cazzo ?

      ED è GENTE CHE RICOPRE SICURAMENTE RUOLI DI MAGGIORE RESPONSABILITA’ DI UN AMENO CAPETTO-ULTRA’ DI BERGAMO ALTA .......

      Ma, in nome di schemetti prefissati ( e soprattutto della difesa acritica di questa merda di governo), si preferisce guardare il dito e non la luna ....

      Che lo faccia Repubblica è comprensibile ..... che lo si faccia qua sopra molto meno .....

      R.

    • Sai che scoperta che Questore e capo della Polizia si imbranino in situazioni siffatte ; certo si imbranano meno quando crepa per sbaglio un ragazzino a NA , ma del ragazzino agli ultras non gliene frega niente ; questi combattono per l’onore della curva .
      Quindi : pietosi funzionari dello stato quelli che hanno ( con scarsissima convinzione invero ) inizialmente cercato di nascondere la verità ; se poi qualcosa sia cambiato da quanto è sempre successo, dalla morte del Pinelli a Giorgiana Masi ,lo si vedrà all’esito di inchiesta e processo , anche se non ho ben capito che cosa si vorrebbe fare di quello che ha sparato , cioè se giudicarlo in Tribunale o impalarlo .
      E comunque ciò non sposta di un micron il giudizio sui fanatici delle curve che in nome dell’Atalanta o della Lazio vanno in giro a spaccare tutto .
      mi sfugge poi il significato dell’ultima frase di R. ; certo , questi ragionamenti li faccio qui su Bella Ciao , perchè dove devo farli ? Qualcuno me lo vuole impedire?

      Buster Brown

    • Per quanto mi riguarda non voglio "impalare" nessuno, figuriamoci.

      Però è un dato di fatto che nei confronti del killer in divisa dell’autogrill, accusato di omicidio volontario, non è stato emesso a tuttoggi alcun provvedimento restrittivo, nemmeno gli arresti domiciliari.

      Mentre a Roma 4 giovani, nessuno dei quali come già è stato detto rientra nella tipologia dell’ultrà fascistoide, stanno in galera da ormai nove giorni, sono stati tutti e quattro pesantemente pestati ( uno è piantonato in ospedale con gravi problemi respiratori conseguenti alla rottura di numerose costole).

      E nonostante solo uno di loro ha precedenti penali, oltretutto di tuttaltra natura, si è evitato anche il processo per direttissima che realisticamente avrebbe portato alla scarcerazione o almeno ai domiciliari.

      E per tre dei quattro ( sulla figura del mio amico Lorenzo, il quarto, invito a leggere nel newswire l’articolo di un deputato di Rifondazione, Massimiliano Smeriglio) si è addirittura formulata l’incredibile imputazione di terrorismo !

      Credo che questo basti E avanzi a porsi dei dubbi sulla "legge uguale per tutti" (!) e, purtroppo, anche a poter scatenare l’ira di Dio alla prossima domenica calcistica ....

      Curiosissimo poi che per gli ultras si usino parole di fuoco e per i rappresentatnti istituzionali il leggerissimo termine di "imbranato".

      Ma qundo la smetteremo, anche a sinistra, di parlare solo di "legalità" ( avendo ancora gran parte del codice penale che risale al fascismo) e quando si tornerà invece a parlare di "giustizia", sociale e non ?

      K.

  • Voglio alimentare questo dibattito , riportando qui di seguito un interessante ( anche se non completamente condivisibile) contributo del sociologo Carlo Gambescia, scritto dopo i fatti di Catania :

    MaxVinella

    La violenza negli stadi. Sarà sufficiente la repressione?

    Repressione, solo repressione. Dopo i fatti di Catania tutti sembrano essere d’accordo nell’auspicarla. Si liquida il tifo violento, che coinvolge in particolare i giovani, giudicandolo un fenomeno puramente delinquenziale. E non invece un fenomeno identitario, ritualistico e di folla. Che, indubbiamente, ha una sua pericolosità sociale, nessuno lo nega. Tuttavia se è comprensibile l’atteggiamento delle forze dell’ordine (che in fondo cercano di fare solo il proprio lavoro), non lo è quello di certi giornalisti e studiosi di scienze sociali.
    E qui va fatta una breve digressione.
    Le ricerche mostrano che il riflusso verso il privato degli anni Ottanta, ha implicato un progressivo calo di interesse verso la militanza politica. Un vuoto che i giovani hanno colmato “investendo” in altri settori del tempo libero, e dunque anche nell’ambito delle pratica sportiva e del tifo calcistico ( si veda il Quinto Rapporto 2002 sulla condizione giovanile a cura dell’Istituto Iard Franco Brambilla, http://www.istitutoiard.it/). Il mutamento di interessi si spiega con la crescente sfiducia verso partiti, istituzioni, forze dell’ordine. Se all’inizio degli anni Ottanta, due giovani su tre si fidavano delle istituzioni, oggi di fida solo un giovane su due. Questo dato fa il paio con l’accresciuta fiducia nei riguardi di famiglia e amici. E soprattutto con il diffuso apprezzamento (tre giovani su quattro) dell’amicizia come valore in sé. Ora, nessuno vuole sostenere che la sfiducia nelle istituzioni e la fiducia nel gruppo dei pari (età) si sia trasformata automaticamente in tifo calcistico e il tifo, a sua volta, in tifo acceso e violento. Ma in particolari condizioni di deprivazione culturale, isolamento sociale e incertezza lavorativa (un giovane su due tra i 25 e i 34 anni svolge un lavoro flessibile, e solo uno su due, tra i 15 e il 24 ha un’occupazione), il vischioso mondo del calcio e del tifo, incensato dai media sette giorni su sette e favorito dalle stesse società sportive, ha sicuramente rappresentato, per alcuni giovani “deprivati”, il terreno socioculturale perfetto per trasformarsi in ultrà.
    Sotto questo aspetto, il tifo violento risponde perciò a una logica di tipo identitario. E spieghiamo perché. Il gruppo ultrà si riconosce e legittima, negando lo stesso diritto a un gruppo avversario (spesso altrettanto violento): è un riconoscimento “contro” qualcuno. E di questa contrapposizione identitaria, ne fanno le spese le forze di polizia, costrette istituzionalmente a frapporsi tra i due gruppi, come purtroppo è avvenuto a Catania. Inoltre, su questa forte logica di gruppo, si innescano i cosiddetti ritualismi collettivi (striscioni, cori, e coreografie varie), che agiscono da rinforzo psicologico, favorendo la “militarizzazione” del tifoso e la sua adesione a una visione mitologica e totalizzante della squadra di appartenenza. Il processo è questo: 1) l’isolamento socioculturale facilita l’aggregazione tra tifosi; 2) l’individuazione del nemico (l’ altro tifoso o il poliziotto), rafforza la coesione del gruppo; 3) il gruppo, grazie all’intervento del rito, acquisisce maggiore coesione e forza, espandendosi socialmente fin dove non incontra ostacoli (in genere istituzionali). La logica processuale del gruppo risulta perciò più importante dei suoi contenuti, che possono essere ripresi, in chiave occasionalistica, dalle ideologie più differenti. Pertanto, parlare di una curva di “stampo fascista” o “comunista”, è approssimativo e fuorviante, perché non consente di individuare la dinamica sociologica del fenomeno. In questo senso, il ferimento e l’uccisione di un tifoso avversario o di un agente di polizia (al di là della loro gravissima rilevanza penale), non sono fenomeni legati a una particolare ideologia politica, ma fatti simbolici. Perché assumono lo stesso valore rituale dell’uccisione del capro espiatorio. Infatti, come ci insegnano gli antropologi, si tratti di “atti” che fondano, rifondano, e consolidano il gruppo. Insomma, il gruppo ultrà è una vera e propria (micro)struttura sociale, che nell’universo hobbesiano del tifo violento, stabilizza e soddisfa, seppure in modo deviato e antisociale, uno spontaneo bisogno individuale di identificazione. E quanto più cresce lo stato di isolamento socioculturale in cui i membri del gruppo vivono, tanto più resta difficile impedire che i singoli cedano al richiamo protettivo “del branco” per dirla nel linguaggio sbrigativo di certi giornali.
    Infine, lo stadio di calcio, è il luogo per eccellenza, dove i fenomeni di gruppo (fondati su identificazione e rito) si trasformano in fenomeni di folla. Perché?
    In primo luogo, ogni individuo, anche se non appartenente a un gruppo di tifosi violenti, una volta immerso nella folla, acquisisce un pericoloso senso di onnipotenza: si sente psichicamente all’unisono con una grande quantità di persone, finendo per condividerne gli scopi immediati. In secondo luogo, certi sentimenti di odio e violenza, si trasmettono dal gruppo alla folla rapidamente, quasi per “contagio” psichico tra individui, per dirla con Le Bon. In terzo luogo, la folla subisce facilmente, come in stato di ipnosi, ogni improvvisa e nuova suggestione psichica (si pensi al panico che provocò tra i tifosi la falsa notizia della morte di un tifoso, diffusasi durante il derby Roma-Lazio nel 2004). Con tutte le tristi conseguenze del caso.
    Questi tre fattori (identificazione attraverso il nemico, ritualità rafforzativa, trasformazione del gruppo in folla), sono alle origini di quel che è accaduto venerdì scorso a Catania. Ma identificazione e ritualità, sono fattori che rinviano a cause strutturali. Cosicché reprimere non serve a nulla. Mentre, sulla trasformazione del gruppo in folla si potrebbe intervenire, non chiudendo gli stadi, ma rendendoli meno anonimi e più vivibili sotto l’aspetto ambientale e architettonico.
    In conclusione, il problema di fondo è quello di offrire alternative di vita a giovani che vivono in condizioni di isolamento e deprivazione socioculturale. Come? Tentando di sostituire alla logica del branco la logica della società civile. Il che non è certo facile, e nell’attuale situazione, può apparire degno di un utopista settecentesco. Ma puntare solo sulla repressione, senza almeno tentare di rimuovere le cause di fondo del "tifo violento", non è altrettanto irrealistico?