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Via dall’Iraq, via dall’Afghanistan

Publie le domenica 16 luglio 2006 par Open-Publishing

CONTRO LA GUERRA, SENZA SE E SENZA MA

Un movimento contro la guerra senza se e senza ma.

Il dibattito che si e’ aperto, dentro il movimento contro la guerra e nelle diverse istituzioni politiche, sulle scelte riguardo alle missioni militari all’estero e’ l’ennesima dimostrazione di quanto l’opposizione alla guerra abbia segnato la politica di questi ultimi anni. Non a caso il movimento si e’ costituito e ha sviluppato la propria iniziativa politica e sociale proprio "contro la guerra e contro il liberismo". E il primo appuntamento significativo di questo movimento e’ stata la manifestazione del 10 novembre 2001 a Firenze, contro l’intervento statunitense in Afghanistan, che avevamo ben chiaro avrebbe rappresentato l’accelerazione della politica interventista degli Usa e dei loro alleati, decisa nel quadro della "guerra globale permanente".

Questi aspetti sono chiari a tutte/i coloro hanno contribuito alle mobilitazioni di questi anni, e richiamarli non vuole in alcun modo assumerli come motivo di divisione tra diverse posizioni oggi espresse riguardo il decreto di rifinanziamento delle missioni militari: al contrario, quella consapevolezza riguardo alla natura dell’intervento in Afghanistan continua a essere elemento condiviso nel movimento.

Dobbiamo pero’ provare a giudicare le decisioni che il Parlamento e il Governo stanno per assumere alla luce di questa consapevolezza, e della ribadita volonta’ pacifista di chiudere con il capitolo degli interventi militari e di "pace", segnando in questo modo l’inizio di discontinuita’ politica necessaria a inaugurare una politica estera alternativa.

La lettura del decreto approvato dal Consiglio dei ministri purtroppo non fornisce alcun elemento forte di discontinuita’ nella logica degli interventi, malgrado contenga l’importante decisione del ritiro dei militari italiani dall’Iraq.
Due sono le considerazioni che portano a questo giudizio.

In primo luogo nella relazione illustrativa del decreto e nel contenuto del provvedimento e’ chiara la scelta di mantenere la propria presenza in Afghanistan nel quadro del contesto definito da "Enduring freedom", cioe’ dall’intervento di guerra statunitense: questo e’ dimostrato dall’aumento dello stanziamento per questa operazione militare, ma anche dalle considerazioni piu’ volte lette (anche su "il manifesto") sullo stretto legame esistente tra Isaf e "Enduring freedom".

E che sia una missione di guerra e’ chiaro anche dalla scelta di sottoporre i militari impegnati al Codice penale militare di guerra (come in Iraq e a differenza da tutte le altre missioni).

Questa scelta di continuita’ con le decisioni del passato (il decreto e nella parte sull’Afghanistan - ricalca anche nelle parole quello approvato piu’ volte nella scorsa legislatura) affiora purtroppo anche quando si esprime la scelta del ritiro dall’Iraq, per il quale e’ previsto il mantenimento di una forma di intervento "tramite la partecipazione (con risorse umane e finanziarie) ad iniziative delle Agenzie delle Nazioni Unite e la prosecuzione dell’impegno nelle Missioni UE e NATO" (dalla relazione illustrativa del decreto).

Con questo non si vuole in alcun modo rendere ininfluente la decisione del ritiro dall’Iraq che e’ il frutto soprattutto della mobilitazione di questi anni e della diffusione dell’opposizione all’intervento espressa da milioni di donne e uomini. Dobbiamo pero’ aver chiaro che le due scelte sono legate e che il Governo ha operato uno scambio con gli "alleati": il ritiro dall’Iraq dovra’ essere compensato dalla permanenza in Afghanistan e dalla rinnovata fedelta’ alla Nato.

Questo ci porta alla seconda considerazione. Il decreto e’ scritto a partire dalla scelta di rispettare i legami delle "alleanze occidentali", in particolare della Nato. Questo era chiaro fin dall’intervento di D’Alema di fronte alle Commissioni esteri di Camera e Senato dello scorso 14 giugno, quando affermava "la presenza militare italiana in Afghanistan non e’ in discussione, a mio giudizio. Il Governo italiano lo ha garantito nei giorni scorsi al Segretario generale della Nato in visita a Roma". Ma il governo italiano non dovrebbe prima discutere le scelte dentro la propria maggioranza e nel paese, prima di "garantire" qualcosa al segretario della Nato?

Quello che deve essere chiaro allora e’ che la missione in Afghanistan rappresenta la sperimentazione necessaria affinche’ la Nato possa assumere fino in fondo le sue caratteristiche che dal 1991 sta preparando, per diventare "agente globale di sicurezza", come l’ha definita un suo funzionario (noi preferivamo chiamarla "braccio armato della globalizzazione").

In una relazione presentata all’Assemblea parlamentare della Nato dello scorso maggio, intitolata "L’Afghanistan e il futuro dell’Alleanza", il parlamentare olandese Bert Koenders, scrive: "L’Afghanistan e’ il principale teatro delle operazioni Nato e la cartina di tornasole per la capacita’ di quest’ultima di agire e di mantenere le promesse date dai suoi Stati membri. Da questa missione dipende la credibilita’ dell’Alleanza. Pertanto l’esito della missione afgana avra’ conseguenze rilevanti per la sua coesione militare e politica e sara’ inscindibilmente legato al dibattito sulla sua trasformazione".

Il movimento contro la guerra non puo’ far finta di non saperlo: la scelta di rimanere in Afghanistan diventa parte integrante di una politica estera che accetta le logiche interventiste della Nato. e a questo proposito dovremo saper rispondere con chiarezza che la Nato non puo’ far parte della "logica multipolare", perche’ si tratta di un’alleanza militare offensiva e destinata a proteggere gli interessi dei "padroni della globalizzazione".

Al decreto si e’ aggiunta ieri la mozione di indirizzo che lo accompagnera’ in Parlamento. Da quanto risulta, in questo caso sembrano maggiori gli elementi positivi - almeno in direzione di una discussione piu’ ampia sulla realta’ della missione in Afghanistan - e questo non e’ un fatto politico indifferente, anche perche’ penso sia frutto anche dell’iniziativa di chi si sta opponendo alle scelte attuali. Rimangono pero’ ancora molte ambiguita’ sulla natura della missione in Afghanistan e sull’idea che questa sia conseguente ad una scelta da fare con i "nostri alleati" in primo luogo, ancora una volta, la Nato. E non e’ di fatto prevista alcuna "exit strategy".
E rimane il dubbio che lo strumento della mozione sia quello adatto, una volta che il decreto va in direzione di una riaffermazione dell’impegno militare cosi’ com’e’.

Evidentemente non possiamo pensare di fare dell’uscita della Nato il terreno attuale di discussione e quindi obiettivo politico immediato del movimento. Ma non possiamo nemmeno subire i ricatti atlantisti di chi deve rispettare il suo DNA come fece nel 1999 al vertice di Washington dell’Alleanza atlantica, quello che approvo’ una modifica del "concetto strategico" mai discussa dal Parlamento italiano (e nemmeno presente nel programma dell’Unione, mi verrebbe da dire).

Ha ragione chi sostiene che il movimento non deve subire il dibattito istituzionale, e tantomeno essere schiavo delle alchimie parlamentari e nemmeno subordinare la propria iniziativa alle dinamiche governative (come successe nel 1999 quando gli organizzatori della Perugia-Assisi invitarono il Presidente del Consiglio D’Alema a partecipare alla marcia pacifista pochi mesi dopo la fine dei bombardamenti su Belgrado per "ricucire lo strappo" con il governo). Per questo dobbiamo guardare ai contenuti, e quello che leggiamo finora nel decreto del Governo non si avvicina per nulla ad un passo avanti verso la discontinuita’ politica.

Una modifica sostanziale del decreto, che porti davvero ad affermare una progressiva linea di ritiro dei militari italiani dall’Afghanistan, rafforzerebbe questa richiesta di discontinuita’ e segnerebbe un successo delle posizioni del movimento nel suo insieme.

Il movimento deve saper affermare la sua autonomia e ribadire la sua posizione che chiede il rientro dei militari italiani anche dalla guerra in Afghanistan; questo secondo me significa ribadire il no a quel decreto e rilanciare in tutte le forme possibili l’iniziativa del movimento.

L’assemblea del 15 luglio a Roma rappresenta allora un’occasione estremamente importante per mostrare la forza e le ragioni di chi si e’ sempre mobilitato contro la guerra senza se e senza ma, e ha saputo conquistare buona parte della societa’ italiana a questa posizione. Mostrera’ il dissenso non rispetto ad una scelta parlamentare contingente, ma verso l’idea di una politica estera "bipartisan" senza contenuto alternativo.

E naturalmente sono importanti tutte le iniziative che si stanno organizzando, a partire dai presidi in occasione del voto alla Camera e al Senato, per chiedere un voto contrario al rifinanziamento.

Dobbiamo pero’ sapere anche che il movimento contro la guerra non si ritirera’ dopo il voto parlamentare sulle missioni, qualsiasi sia il risultato, anche se questo lascera’ segni sul movimento stesso. Abbiamo al contrario bisogno che il movimento - oltre alla sua autonomia - sappia riaffermare la sua radicalita’ e la sua unita’ , per poter davvero incidere sulle scelte politiche di fondo, a partire dalla prossima importante legge finanziaria.

Abbiamo bisogno di tutte/i noi per poter porre con forza l’esigenza di discontinuita’ e alternativa nella politica estera e della difesa: a partire dall’esigenza di una sostanziale riduzione delle spese militari (come ben argomentava Mario Pianta su "il manifesto" del 9 luglio scorso), non dimenticando la necessita’ di un impegno forte del nostro paese per favorire il rispetto del diritto internazionale e la pace in Medioriente (magari cominciando dalla sospensione dell’accordo militare con Israele, approvato scandalosamente piu’ di un anno fa dal Parlamento a maggioranza berlusconiana) impegno che le vicende tragiche di questi giorni rendono urgente, cosi’ come rendono urgente l’iniziativa del movimento.

La proposta di un incontro il 22 luglio a Genova proposto da Vittorio Agnoletto e altre/i puo’ essere un momento utile in questa direzione: facciamolo diventare uno spazio condiviso e un’occasione di rilancio del movimento, con un dibattito anche aspro ma aperto e indirizzato a trovare terreni di iniziativa comuni, lasciando da parte l’idea che qualcuna/o di noi possa rappresentarlo nel suo insieme.

Piero Maestri “Guerre&Pace" 14 luglio 2006