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da "repubblica on line" del 9.6.06
Vi lavorano oltre 400mila persone, guadagnano tra i 5 e i 7 euro all’ora. L’analisi delle loro condizioni di lavoro in un’indagine Cgil presentata oggi
Stress continuo, paga da fame
viaggio nel mondo dei call center
di FEDERICO PACE

All’inizio ci sono delle aspettative. Dopo, restano solo le delusioni. Per le condizioni di lavoro, per le prospettive professionali, per lo stress continuo e per le paga che rimane sempre troppo bassa. Quello che doveva divenire un settore maturo e più "vivibile" pare non avere fatto alcun passo avanti. Viene da dire che questi ultimi due anni siano andati sprecati. L’indagine presentata oggi a Genova da Cgil "Call Centers. Idee per un cambiamento" e condotta in sei grandi call center liguri (tra questi quelli di Telecom, Poste e H3g) restituisce uno scenario peggiore di quello che ci sarebbe potuti aspettare.
Seppure la crescita del settore, sono oggi 400 mila le persone che vi lavorano, ha permesso a un elevato numero di persone di trovare un posto, le condizioni di lavoro di chi con i call center deve misurarsi tutti i giorni sono tutt’altro che buone.
Organizzazione del lavoro, salute, soddisfazione e prospettive. Tutto ai minimi. Tutto legato insieme in una specie di spirale che si torce su se stessa. Tra quelli che in un call center ci lavorano, sette su dieci (il 66,7%) pensano ormai che il proprio lavoro non possa avere un’evoluzione positiva all’interno dell’azienda ed altrettanto pessimistiche sono le attese rispetto alle opportunità esterne: nove su dieci ritengono che sia difficile cambiare lavoro e trovarne uno migliore. Per una paga che in termini orari oscilla tra i 5 e i 7 euro così che pare naturale che il 40 per cento consideri molto deludente la propria retribuzione.
Una telefonata dietro l’altra, un problema da risolvere dietro l’altro. Per chi si trova a dovere gestire le telefonate in entrata, lo stress è rappresentato soprattutto dai ritmi, dall’ossessione di dovere chiudere le chiamate entro qualche minuto. E pare quasi assurdo che non possa essere accolta la richiesta di chi, tra i testimoni, dice che "la cosa ideale sarebbe avere un intervallo, un minuto, tra una telefonata e l’altra".
Ma anche quando si tratta di attività di telemarketing le cose non cambiano. "Le liste dei clienti - ci ha detto Paola Pierantoni, responsabile sportello sicurezza Cgil Genova e coordinatrice dell’indagine (leggi intervista integrale) - vengono date dall’azienda, le telefonate vengono sparate in cuffia con un sistema automatico che cerca i numeri. Alle persone arrivano in cuffia anche i fax con i conseguenti problemi di salute per le scariche di rumore pesante". Senza contare che spesso i call center vengono realizzati senza tenere conto delle caratteristiche del lavoro che vi verrà svolto. E la rumorosità, insieme alle condizioni climatiche (vedi tabella), è tra le cause di maggior disagio dei lavoratori.
Se è vero che nei sei call center messi sotto osservazione, il 65,8% è rappresentato da dipendenti contro il 30,4 per cento dei lavoratori a progetto, va detto pure che nel Regno Unito, come fanno notare gli autori della ricerca, il 92 per cento degli addetti dei call center hanno un contratto permanente. La "stabilizzazione" dei lavoratori, quella promessa dall’accordo nazionale tra Assocallcenter e sindacati siglato nel 2004, non pare proprio esserci stata. In uno dei call center presi in esame (Call & Call) si sarebbero dovuti stabilizzare il 60% dei lavoratori entro il 2008. Ad oggi in questo call center è dipendente solo il 5,2 % degli operatori in cuffia.
Ci sono dei casi positivi. Casi in cui dove si fa formazione, si offre agli operatori un minimo di rotazione con attività lontane dalle "cuffiette". Ma è poco. Ancora troppo poco.
Solo quattro su dieci si dicono tranquilli per il proprio impiego mentre quasi il 35% sente di essere precario. E non per propria scelta. Già, le scelte. Solo uno su dieci dichiara di avere deciso la condizione "provvisoria" in cui si trova. Quasi la metà dei lavoratori ha più di quarant’anni e solo uno su cinque di loro non è ancora trentenne (vedi tabella). Il settore mantiene la sua natura "femminile" (il 77,2 per cento degli addetti è formato da donne) e sono proprio le donne quelle che, in proporzione, hanno meno accesso alla stabilizzazione contrattuale. E questo non per scelta, visto che solo il 12,5 per cento di loro si ritrova "precaria" per volontà.
Il lavoro nei call center sembra venire meno a anche quella missione importante che è la realizzazione delle proprie capacità professionali (vedi tabella). Tale distacco dal lavoro avviene in maniera più accentuata dove la comunicazione telefonica è soggetta a rigidi limiti di tempo. E sono soprattutto quelli che ci lavorano già da tempo a provare i più elevati livelli di insoddisfazione personale.
In Italia, rispetto all’Europa, le cose forse vanno anche un poco peggio: "I call center in outsourcing - ci ha detto Giovanna Altieri, direttore Ires-Cgil (vedi intervista integrale) - sono relativamente più localizzati nel Sud Italia. Grazie ai contributi europei molti imprenditori hanno delocalizzato l’azienda in queste aree dove è molto diffusa l’esternalizzazione. Sono frequenti i casi di poca chiarezza tra intrecci proprietari, ambiguità tra esternalizzazione e internalizzazione di servizi e appalti pubblici".
Se si leggono le cronache di questi giorni ci si accorge che in tutta Italia c’è una specie di febbre che sta salendo. Ci sono i lavoratori a progetto del call center Cosmed, che lavora per conto di Sky, che protestano a Palermo. A Bologna, il sindacato degli atipici della Uil denuncia che nel call center di Hera gestito dalla Telework, lavorano "oltre 250 falsi collaboratori a progetto" che operano in condizioni di precarietà "non più sostenibili". E intanto a Roma centinaia di operatori a cui non è stato rinnovato il contratto dal mega call center di Atesia chiedono di venire reintegrati.
(9 giugno 2006)
Messaggi
1. > Viaggio nel mondo dei call center, 9 giugno 2006, 18:09
Per motivi professionali (sono ispettore di vigilanza dell’INPS) seguo sempre con interesse i dibattiti sui problemi del lavoro e ovviamente anche i dibattiti pubblicati sul vostro sito.
Ogni volta che sento parlare i nostri politici (di ambo le parti) sul mercato del lavoro e in particolare sulla cd legge Biagi mi rendo conto che queste persone hanno un idea quantomeno vaga di quanto accade nella realtà.
Prendiamo 2 tipi di contratti atipici: il co.co.co (poi co. co pro.) e l’associazione in partecipazione.
In linea teorica hanno la loro validità cioè prefigurano un rapporto di lavoro molto particolare che però può configurarsi.
Nei fatti la mia esperienza mi insegna che questi rapporti di lavoro sono stati utilizzati praticamente solo in virtù della loro "economicità" e convenienza senza riguardo alcuno per le effettive modalità di esecuzione del lavoro.
Ormai è usuale trovare camerieri, commesse, pizzaioli e persino muratori inquadrati come collaboratori o associati, tutti rapporti di lavoro che al termine dell’accertamento devo trasformare in rapporti di lavoro dipendente per la clamorosa evidenza della subordinazione esistente.
Nella mia esperienza lavorativa non mi sono mai imbattuto in rapporti di lavoro di tipo Job sharing", " a chiamata" o "staff leasing"
a dimostrazione che alcune parti della legge Biagi non hanno avuto alcuna applicazione pratica per un rifiuto del mercato.
Un aspetto preoccupante che sto riscontrando è invece l’uso sfrenato che viene fatto della intermediazione illecita di manodopera in particolare nel settore metalmeccanico, impiantistico, dei servizi alle imprese e dei montaggi.
In questo campo vengono orchestrate operazioni in grande stile per evadere i contributi, l’IVA e ogni altra imposta, basate alla fine sempre sullo sfruttamento dei lavoratori.
Non è raro imbattersi in sedicenti cooperative i cui soci lavoratori sono tutti extra comunitari che parlano appena l’italiano (e non sanno certo di essere soci), ignari di ogni minima conoscenza dei propri diritti e in balia dei caporioni (italiani) che organizzano il tutto.
Queste cooperative, rigorosamente a responsabilità limitata, hanno una vita media di circa 2/3 anni (il tempo tecnico dopo il quale si comincia ad essere seriamente a rischio controllo), nel corso dei quali non versano quasi nulla all’INPS e al Fisco. Dopo questo tempo cessano l’attivItà e tutti i lavoratori (e gli appalti) passano ad una nuova società nata per vivere un paio d’anni e così via.
Queste società non hanno mezzi di produzione nè immobili, ma semplicemente reclutano braccia da inviare presso qualche grosso committente. Ovviamente i contratto d’appalto sono fatti con grande maestria e difficilmente può essere dimostrata l’intermediazione illecita. Comunque sarebbe già un bel risultato se pagassero quello che devono.
E qui sorge un problema.
Ma i grossi committenti (aziende note e ben radicate sul territorio) non si pongono la domanda: " Ma se a me un dipendente costa così tanto, come fanno questi a fare il lavoro che farebbe un mio dipendente a un prezzo incredibilmente basso e a guadagnarci?"
Io penso che la risposta la conoscano bene e questo dimostra come tutte le chiacchiere che si fanno sulla lotta al lavoro nero e all’evasione siano operazioni puramente di facciata.
Se poi aggiungiamo quanto effettivamente viene fatto per rinforzare i servizi di vigilanza e quali strumenti vengono dati a chi è incaricato di sorvegliare il mercato del lavoro (Direzioni del Lavoro, INPS e Inail) allora non ci sono speranze.
Davide Balzani
1. > Viaggio nel mondo dei call center, 11 giugno 2006, 13:29
di Massimo Gramellini da La Stampa
10 giugno 2006
Schiavi con le cuffie
Non è il caso di andarli a cercare in Cina o in qualche sperduto villaggio del Pakistan. I nuovi schiavi abitano accanto a noi e ci stanno pure antipatici. Sono quelli che al telefono rispondono con frasi evasive alle nostre richieste d’aiuto o al contrario chiamano con petulanza per offrire servizi che raramente ci interessano: la tribù dei «call center», di cui ieri è stato reso noto il primo censimento impietoso.
La creazione di un ceto di capri espiatori professionali come il Malaussène di Pennac, sul quale l’utente insoddisfatto possa scaricare le sue rabbie, ha prodotto due risultati drammatici. La retrocessione del consumatore a suddito, costretto a dialogare con voci senza volto, sempre diverse, sempre gentili e sempre incompetenti a risolvere il suo problema. Ma soprattutto il ritorno in auge di quel lavoro a cottimo che ci eravamo illusi di aver confinato nel museo della memoria: semafori verdi per poter andare in bagno, il rumore del fax che perfora le cuffie come uno sparo, turni di 120 telefonate in 4 ore che neanche Moggi, al termine delle quali la schiena sembra un inno alla scoliosi e il cervello è ridotto alla consistenza di un semolino.
Una catena di montaggio mentale che si consuma in ambienti sovraffollati, con stipendi che non bastano a pagare l’affitto di una monocamera. Agli albori del turbocapitalismo ci eravamo raccontati la favola che i «call center» fossero il classico lavoro temporaneo che avrebbe permesso ai giovani di guadagnare qualcosa in attesa di spiccare il volo. Oggi l’età media degli schiavi con le cuffie è 40 anni, quando un impiego del genere, più che un trampolino, viene percepito come l’anticamera del fallimento esistenziale. Pensiamoci, la prossima volta che digitiamo uno di quei numeretti telefonici che fanno ridere solo nelle pubblicità.