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Vite bloccate a 700 euro al mese
di Antonio Sciotto
su Il Manifesto del 06/06/2008
I cocoprò sono 20 mila in meno (gli assunti nei call center?) ma restano senza diritti. Un milione di lavoratori sono «dipendenti mascherati». Il rapporto Cgil
Non si parla più tanto dei lavoratori precari, ma esistono ancora. La «vulgata» diffusa dal nuovo governo è che la legge 30 avrebbe risolto le ambiguità tra chi è veramente autonomo e chi non lo è (e una recente intervista del segretario Cisl Raffaele Bonanni sul Magazine del Corsera dava la medesima lettura), salvo condannare quei «rari abusi» che dovrebbe essere il giudice a sanzionare. Ma certo non si può mandare un ispettore ogni giorno in ogni impresa del Paese, e così le aziende e la pubblica amministrazione continuano a utilizzare quelle tipologie contrattuali come il cococò e cocoprò, l’associato in partecipazione e la Partita Iva, che di fatto assicurano un notevole risparmio dei costi, garantendo oltretutto il «licenziamento libero» non appena l’imprenditore ne dovesse sentire la necessità. Una descrizione aggiornata di questa particolare «specie» di precari - limitata cioè al lavoro parasubordinato e in Partita Iva - viene dall’ormai consueto rapporto del Nidil Cgil e della Sapienza di Roma, giunto alla sua terza edizione.
QUEI VENTIMILA STABILIZZATI
I numeri sono relativi agli iscritti del fondo parasubordinati dell’Inps, che nel 2007 ha registrato 1.556.978 persone che hanno fatto almeno un versamento. Ma questi non sono tutti tecnicamente «precari», dato che circa 500 mila sono amministratori di enti o condomini, o collaboratori che hanno anche rapporti dipendenti o una pensione; il Rapporto si concentra allora sui lavoratori il cui reddito proviene esclusivamente dal contratto parasubordinato: e sono in tutto 836.493. Mentre il totale dei parasubordinati si è praticamente stabilizzato (contando un aumento del 2,4% rispetto al 2006; ma tra il 1996 e il 2004 erano aumentati del +108%, con una media del 9% annuo), i veri e propri «precari» hanno subito per il primo anno una «curiosa» contrazione: -20 mila unità nel 2007, rispetto al 2006, che potrebbero essere (almeno in parte) quei 20 mila operatori dei call center stabilizzati proprio nel 2007, anche se questo la statistica non può dirlo.
La Cgil legge questa «inversione di tendenza» come risultato delle azioni del precedente governo: dalla circolare sui call center, all’aumento dei contributi pensionistici (passati dal 18% al 23,5%), fino agli incentivi per la stabilizzazione. Quanto ai redditi di questi lavoratori, però, la povertà che li contraddistingue è rimasta immutata: il loro reddito medio annuale è di 8.800 euro lordi, che divisi per 12 mensilità fanno poco più di 700 euro al mese. Soglie di reddito tipiche da «no tax area»: e si prefigura, se in futuro la loro condizione non dovesse cambiare, un assegno pensionistico sui 300 euro mensili (anche se non è il Rapporto a calcolarlo, ma gli estensori confermano che gli importi stanno sotto il sussidio sociale). Rispetto al 2006 il reddito è cresciuto di 405 euro annui, pari a un +4,8%, inferiore dunque all’inflazione. Le donne sono particolarmente penalizzate, perché i loro redditi sono in media inferiori del 30% rispetto agli uomini: il reddito annuale medio calcolato è di 6800 euro. I mesi medi di contrattualizzazione sono 7 ogni anno: circa 5 mesi, insomma, restano in media scoperti, senza occupazione.
HANNO UN UNICO DATORE DI LAVORO
Il 90% dei parasubordinati ha un solo committente: forte segnale del fatto che questi lavoratori sono in realtà dei «dipendenti mascherati». La precarietà è in molti casi «persistente»: il 70% aveva un contratto atipico anche nel 2006, e il 50% lo aveva pure nel 2005. L’anno prossimo il rapporto si propone di analizzare se il committente, negli anni, sia sempre lo stesso: il tassello confermerebbe che i cocoprò dovrebbero essere assunti non solo con contratto subordinato, ma anche, molto spesso, a tempo indeterminato. L’età media dell’intera platea è di 40 anni, ma scende a 34 se consideriamo gli atipici monocommittenti. Interessante, infine, è la concentrazione dei precari nelle differenti zone del paese e nei settori produttivi. Se il 55% del totale dei parasubordinati si trova a Nord, e solo il 28% al Centro e il 17% al Sud, le percentuali in qualche modo si invertono se passiamo a considerare i precari veri e propri in rapporto all’intera platea: sono «appena» il 29% in Trentino, ma arrivano quasi al 75% in Calabria e Lazio, e al 65% in Sicilia, Campania, e Puglia. La «maglia nera» spetta a Reggio Calabria: 82,2%, e anche Roma si difende con un bel 74%. I settori più «popolati» sono le telecomunicazioni (87%), i servizi di consulenza (76%), sanità (76%) e ricerca (75%), l’informatica (67%) e l’istruzione (67%). Le partite Iva, infine, conteggiate al 2006, erano 187.334.
Quanto alle possibili «cure», il segretario Cgil Fulvio Fammoni ha indicato ieri che si dovrebbe «continuare nel contrasto sul piano normativo, ispettivo e sul fronte dell’innalzamento dei costi»: «Le stesse agenzie interinali ci hanno indicato come peggiori concorrenti, quelli che fanno dumping applicando contratti atipici o appalti al massimo ribasso». Per Filomena Trizio (Nidil Cgil) «l’aggancio ai minimi del contratto nazionale deve diventare cogente», perché la norma di mera indicazione della passata finanziaria non è servita ad aumentare i compensi.