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Vogliono la scuola-fast food: deve ingrassare, non nutrire

Publie le sabato 6 settembre 2008 par Open-Publishing

Vogliono la scuola-fast food: deve ingrassare, non nutrire

di Gennaro Loffredo, dipartimento Scuola e Formazione Prc

Trasformare i docenti in allenatori di alunni abili nel gioco dei test a risposta multipla per migliorarne così le prestazioni e permettere alle scuole/fondazioni italiane di avanzare nella classifica delle indagini Ocse Pisa. Questo è quello che senza mezzi termini la ministra Gelmini ed il governo di cui fa parte vogliono fare del sistema scolastico di istruzione del nostro paese. Una scuola dove il binomio competenze/conoscenze viene semplicisticamente derubricato alla voce abilità. Una scuola in cui i ragazzi devono consumare in fretta ciò che meccanicamente imparano, come in un fast food dove si ingrassa senza nutrirsi. Una scuola sempre più supermercato dell’offerta educativa e sempre meno comunità educante.

Questa storia però parte da lontano. Essa non nasce e non si esaurisce nei confini dell’Italia. Non nasce e non si esaurisce con la Moratti e la Gelmini. Questo progetto di società, poiché di questo parliamo quando affrontiamo il tema delle riforme scolastiche, affonda le sue radici intorno alla fine degli anni ’80, addirittura prima che l’unione europea cominciasse, con il trattato di Maastricht (1992) ad occuparsi di educazione, quando l’Ert (Tavola Rotonda Europea degli industriali) formata da una quarantina tra i più potenti dirigenti industriali europei, fra i quali Nestlé, Fiat, Volvo, Bertelsmann, Lufthansa, il cui compito consiste nell’analizzare le politiche europee nell’ambito dei diversi settori e nel formulare raccomandazioni corrispondenti ai propri obiettivi strategici, crea un gruppo di lavoro specifico per approfondire le tematiche legate all’educazione e pubblica il rapporto "Educazione e competenze in Europa".

E’ il primo documento in cui si afferma «l’importanza strategica vitale della formazione e dell’educazione per la competitività europea» e in cui si chiede «un rinnovamento accelerato dei sistemi d’insegnamento e dei loro programmi». In particolare vi si legge che «l’industria non ha che un’influenza molto debole sui programmi impartiti», e che gli insegnanti hanno «una comprensione insufficiente dell’ambiente economico, degli affari e della nozione di profitto», e che «non comprendono i bisogni dell’industria». «Competenze ed educazione sono fattori di riuscita vitali», continua la lobby padronale, che suggerisce di «moltiplicare i partenariati tra le scuole e le imprese», ed invita gli industriali a «prender parte attiva allo sforzo educativo». In un documento del 1995 l’Ert chiede ai responsabili politici «di coinvolgere le industrie nelle discussioni concernenti l’educazione» e rimprovera il fatto che «nella maggior parte d’Europa, le scuole fanno parte di un sistema pubblico centralizzato, gestito da una burocrazia che rallenta la loro evoluzione o le rende impermeabili alle domande di cambiamento provenienti dall’esterno».

I datori di lavoro, secondo la Tavola Rotonda, chiedono lavoratori «autonomi, in grado di adattarsi ad un continuo cambiamento e di accettare senza posa nuove sfide». «Non c’è tempo da perdere», si legge ancora nel documento del 1997, «la popolazione europea deve impegnarsi in un processo di apprendimento permanente» e, a tal fine, «sarà necessario che tutti gli individui che imparino, si muniscano di strumenti pedagogici di base proprio come fanno con una televisione». Quando si affronta il tema dei contenuti da insegnare, il ruolo principale della scuola, dicono da parte loro le autorità europee, non è più quello di stimolare la curiosità degli allievi per far sì che acquisiscano, attraverso i saperi, nuove conoscenze che gli permettano di leggere il mondo e di muoversi in esso consapevolmente, ma piuttosto assicurar loro l’accesso a specifiche competenze per essere adattabili alle richieste del mercato del lavoro.

Questo il delirio consapevole e subdolo della lobby economica che sovrintende e governa i sistemi di istruzione dei paesi membri della comunità europea. Questo l’imbroglio verso le nuove generazioni delle quali si pretende di misurare le competenze attraverso quiz a risposta multipla (indagini Ocse/Pisa). Dopo il debutto degli anni ‘90, l’Unione europea comincia a stimolare e sostenere iniziative nazionali volte a "deregolamentare" i sistemi d’insegnamento; vuole sostituire la Scuola pubblica, gestita centralmente, con livelli di gestione autonomi in situazione di forte concorrenza reciproca.

Si dà il via alle scuole/supermercato e, nel 1993, nel Libro Bianco sulla competitività e l’occupazione, si suggeriva già di prevedere, nelle finanziarie degli stati membri, vantaggi fiscali e legali al fine di incoraggiare gli investimenti diretti del settore privato e del mondo degli affari nell’insegnamento. Instabilità ed imprevedibilità dell’evoluzione economica e del mercato del lavoro, crisi ricorrente delle finanze pubbliche, i fattori che determinano, a partire dalla cerniera tra anni 80-90, una revisione fondamentale delle politiche educative, non solo in Europa, ma in tutto il mondo industrializzato. La scuola, con il Trattato di Lisbona, viene messa al servizio della competizione economica e l’insegnamento viene snaturato e ridotto a mezzo per sostenere la competitività delle imprese; il compito diventa quello di fornire una formazione di eccellenza per una platea sempre più ristretta e molta mano d’opera a basso costo. Da una parte, per chi non ce la fa nella scuola - figli di immigrati o di famiglie disagiate, rom, portatori di handicap - viene prevista una canalizzazione precoce, l’avviamento ad un lavoro instabile e precario qualora ci fosse, l’orientamento verso l’apprendistato e/o i percorsi triennali nel canale della formazione professionale.

Dall’altra, per chi è sostenuto da famiglie socialmente, culturalmente ed economicamente forti, il classico sistema dei licei, l’università, i master, la futura classe dirigente. In merito ai dati Ocse/Pisa tornati alla ribalta in quest’ultimo periodo per porre in qualche modo rimedio ad uno scivolone della ministra Gelmini sugli insegnanti del sud. Queste indagini nascono con l’intento di analizzare le competenze in merito alla lettura, alla matematica e alle scienze. La scelta, non casuale, fatta dall’Ocse è stata determinata dal fatto che le competenze che si sviluppano studiando queste discipline accompagnano i soggetti che le posseggono per gran parte della loro vita. Certo vanno esercitate. Contrariamente a quanto avviene, per esempio, con le discipline tecnologiche che hanno una durata molto limitata poiché si evolvono rapidamente. Ha ragione Benedetto Vertecchi, pedagogista emerito, quando afferma che l’apporto teorico e politico delle ricerche Ocse alla revisione delle scelte relative all’educazione consiste nell’affermazione della priorità, nei curricoli, dell’acquisizione di un repertorio di competenze simboliche, non finalizzate ad una utilizzazione immediata. Ciò esclude che l’educazione di base possa avere carattere professionale.

La prova è che paesi come la Germania, il Regno Unito, la Francia, gli Stati Uniti, proprio in risposta ai risultati delle indagini Ocse/Pisa, hanno avviato una fase di revisione dei loro sistemi educativi che prevede, sul versante istituzionale, una maggiore presenza dello Stato nella determinazione degli indirizzi educativi e nella promozione dell’istruzione, e sul versante dei curricoli un deciso rafforzamento delle attività che hanno per obiettivo il raggiungimento di un livello più elevato di competenze di base. Il governo italiano va nella direzione opposta. Sono stati operati enormi tagli di spesa, ben 8 miliardi di euro (un terzo dell’intera manovra finanziaria prevista da Tremonti) per ciò che riguarda la qualificazione solidale degli interventi scolastici: tagli agli organici, diminuiscono gli insegnanti di sostegno, aumenta il numero degli allievi per classe, si limita il tempo a disposizione per l’educazione, si rende inconsistente la soglia di superamento dell’obbligo affiancando all’istruzione scolastica una formazione professionale le cui ricadute culturali non sono mai state dimostrate, si smantella la ricerca sull’educazione.

Allo stesso tempo, mentre si smantellano le scuole dello Stato, si finanziano oltre misura, come portatrici di non si sa bene quale qualità, le scuole private. Eppure, proprio i dati delle ricerche Ocse-Pisa hanno evidenziato che tali scuole non sono affatto migliori di quelle statali, pur operando in condizioni generalmente più favorevoli, con allievi di livello socioeconomico più elevato e senza la presenza di allievi/e svantaggiati/e. Cara ministra, la scuola ha bisogno di essere trattata con delicatezza, ha bisogno di cura, di attenzioni, prefigura il modello di società in cui i nostri ragazzi e le nostre ragazze si muovono e crescono; e la società che il vostro governo prefigura è popolata di giovani consumisti beatamente inconsapevoli della realtà che li circonda.