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"World Trade Center": la regia dell’11 settembre è ancora "patriottica"
Publie le lunedì 14 agosto 2006 par Open-PublishingNel caos che viene da Londra, torna il fantasma delle Torri nel film firmato
da Oliver Stone, «World Trade Center»
di Giulia D’Agnolo Vallan New York
«Un modo duro di ricordarci che gli Stati Uniti sono in guerra contro i
fascisti islamici». È stato il primo commento pubblico di George Bush dopo la
notizia dello sventato attacco terroristico di Heathrow, di cui era a
conoscenza da due settimane. Sul New York Times di ieri, quando le news da
Londra non avevano ancora offuscato le primarie del Connecticut, il
vicepresidente Dick Cheney aveva dichiarato che la sconfitta del senatore
democratico Joe Lieberman (un sostenitore della politica irachena della Casa
bianca) avrebbe rincuorato i terroristi nemici degli Usa facendo loro credere
che «lo spirito» degli americani era in procinto di essere spezzato e
dimostrando la debolezza del partito di Hilary Clinton.
La retorica della
guerra è il messaggio di quest’amministrazione da 5 anni a questa parte. A
sentire loro, i sondaggi garantiscono che, in previsione delle elezioni, il
miglior modo di conservare la poltrona è rimanere saldo su quel carrozzone. A
partire dal fatto che, fin dalla prime ore di ieri, le autorità americane
sono sembrate più disposte a svelare i dettagli del complotto terroristico
inglese di quanto lo fosse il governo britannico, si può solo immaginare come
lo spauracchio della «sicurezza nazionale» sarà usato nelle settimane a
venire che, non a caso, anticipano l’anniversario dell’11 settembre.
A sorpresa, una retorica abbastanza simile è presente nel secondo film
hollywoodiano che affronta in modo diretto l’attentato alle torri gemelle,
World Trade Center, di Oliver Stone.
Il nuovo lavoro del regista di Platoon
(atteso in prima internazionale a Venezia) è arrivato nelle sale Usa
preceduto da ogni sorta di warnings. «Questo non è un film politico», è il
mantra che lo Studio ha passato a Stone. E lui lo ha ripetuto in ogni
intervista, ignorando l’implausibilità teorica e logica dell’affermazione, e
dicendo persino che, visto lo stato precario della sua carriera, un film più
«controverso» avrebbe decretato la sua «crocifissione». Parallelamente ai
disclaimers di Stone, la Paramount, assoldando gli stessi creativi
responsabili della campagna pubblicitaria che affossò le chances
presidenziali di John Kerry, ha fatto circolare stralci di World Trade Center
su Capitol Hill e presso gruppi conservatori che normalmente avebbero visto
Oliver Stone come il fumo negli occhi. Il risultato: persino Fox News lo ha
definito «uno dei più grandi film pro-americani, pro-famiglia, pro-uomo, e
pro-bandiera... mai realizzati».
La questione della «filmabilità», o meglio dell’infilmabilità, dell’11
settembre è molto interessante e del tutto irrisolta. Un esempio è United 93
di Paul Greengrass e il film di Oliver Stone è un po’ la stessa cosa, una
ricostruzione di eventi, ma con un deciso tocco propagandistico in più. World
Trade Center è infatti il racconto di quel giorno vissuto da due poliziotti
della Port Authority Administration, John McLaughlin e Neil Jimeno
(interpretati da Nicolas Cage e Michael Pena), rimasti seppelliti circa 24
ore sotto le macerie delle torri. Tutto incentrato sulla vicenda dei due
uomini in attesa di soccorso e sull’apprensione delle loro famiglie, il film
di Stone è una visione microsopica fino alla miopia.
La stampa mainstream, in massa, ha celebrato il tocco «lieve», intimista e
«umano» con cui Stone ha affrontato il suo soggetto. In realtà basterebbero
la musica roboante, una breve apparizione di George Bush o il commento voice
over - it brought out the goodness -, per far rabbrividire. Ma la presenza
più inquietante del film è quella di Dane Karnes (Michael Shannon) un ex
marine che, alla notizia dell’attentato, recupera l’uniforme e lascia il
posto di contabile in Connecticut per recarsi a Ground Zero. È grazie ai suoi
sforzi che McLaughlin e Jimeno vennero ritrovati. «Laggiù avranno bisogno di
qualcuno per vendicarsi di tutto questo», dice il soldato alla fine del film,
annunciando la sua prossima missione.
Next Stop Abu Ghraib? viene da
chiedersi, senza sentirsi nemmeno troppo cinici. Poco dopo una scritta ci
informa che, da allora, Karnes ha partecipato a due turni in Iraq... Come si
interroga anche Jim Hoberman sul Village Voice: è possibile concepire dall’11
settembre una narrativa che non sia quella stessa di Bush? Per ora, da
Hollywood e/o Washington, non ne è stato capace nessuno.
Il Manifesto