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la decrescita impossibile (3)

Publie le venerdì 24 agosto 2007 par Open-Publishing
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  la decrescita impossibile (3) -
a cura di Paolo De Gregorio – 24 agosto 2007

Nelle mie precedenti riflessioni sulla “decrescita” spero di non aver dato l’impressione che questo sia un processo che è possibile determinare cambiando solo stili di vita, perché, come senza appello ci dicono i dati scientifici sull’inquinamento: 50% industria, 30% trasporti, 20% consumi delle abitazioni, anche se tutti i cittadini avessero nel privato comportamenti virtuosissimi, sono l’industria e il sistema dei trasporti a determinare l’80% di inquinamento che rende l’attuale economia insostenibile sotto il profilo ecologico.
L’altro fattore fondamentale, che determina squilibri strutturali per la capacità del pianeta di rigenerarsi, è quello della crescita demografica, inarrestabile, non combattuta, anzi incoraggiata dalle religioni islamica e cristiana, che hanno strategie globali di espansione della loro influenza su masse di poveri e disperati.
Questi sono i veri “poteri forti”, proprietari delle industrie, dei mezzi di informazione e delle coscienze, che sono saldamente alleati nel conservare le proprie strategie di “eterno sviluppo”, di competizione, di “scontro tra civiltà”.
Non vi è nessuna entità, né politica, nè etica, né razionale, capace di fermare queste forze per loro natura anarchiche, dogmatiche, prepotenti, che hanno tutto in mano, anche se si è dimostrato scientificamente che ormai sulla terra si consuma più di quello che essa è in grado di rigenerare, le falde acquifere si stanno abbassando, e squilibri climatici, scioglimento dei ghiacci, desertificazioni già sono in atto.
Il mondo globalizzato ha enormemente accelerato il processo economico capitalistico, iperproduttivo, cancellando ogni differenza tra comunismo e capitalismo, che si sfidano spietatamente nella conquista dei mercati e delle materie prime, e per ottenere questi obiettivi non si preoccupano di inquinare e di distruggere.
La logica è questa, senza eccezioni, e oggi è possibile fare una operazione solo “culturale” indicando i responsabili, i complici, la subalternità vile della politica (di destra e di sinistra) e il ruolo delle religioni che stranamente difendono “LA VITA” ma non quella del pianeta terra.
Insomma, quando ascoltiamo Prodi che, prima delle vacanze, ci ricorda che senza crescita non si va da nessuna parte, e i cattolici organizzati che chiedono premi economici per le famiglie numerose, vediamo di riservare loro un sentimento di compassione, perché questi ignoranti, incompetenti, irresponsabili, non sono degni della nostra rabbia, non vedono nulla al di là del loro ombelico, sono completamente inadeguati a fronteggiare i problemi del nostro tempo.
La posta in gioco dunque è la guida dell’economia.
Il capitalismo, nella sua fase suprema di massima espansione e globalizzazione, dopo aver comprato la politica e averla annullata, quindi senza nessun ostacolo e nessun condizionamento, ha prodotto un mostro che non riesce a fermarsi, può restare in equilibrio solo continuando a correre, ma così facendo distrugge tutto ciò che incontra sul suo percorso, e continua anche se distrugge equilibri della biosfera, culture, intere regioni.
E’ a questo punto che il termine “decrescita” assume un significato ambiguo che va superato, perché sembrerebbe che può bastare un po’ di buona volontà dei responsabili del disastro e le stesse forze possono rimanere al potere e correggere gli errori.
Ecco perché bisogna parlare di rivoluzione Copernicana e non di decrescita. Bisogna passare dalla logica del profitto di una economia irragionevole, distruttiva, consumista, alla impostazione razionale e scientifica di una economia sostenibile e compatibile con la prosecuzione della vita sulla terra.
Progettare una economia sostenibile è una cosa seria,materia per scienziati, biologi, fisici dell’atmosfera, esperti di colture agricole, geologi, ingegneri specializzati in energie rinnovabili, esperti del riciclo dei rifiuti, deve essere ipotizzata sulla propria nazione e quindi valutate le proprie risorse in rapporto al numero di abitanti.
L’autosufficienza alimentare ed energetica deve essere la priorità assoluta con strategie diverse da paese a paese, e, quando la crisi petrolifera e climatica fermerà la globalizzazione, chi sarà stato previdente e si sarà reso autonomo con sagge scelte eviterà grandi tragedie.
L’unica regione che conosco in Italia, capace di reggere una profonda crisi energetica è la Sardegna. E’ abbastanza vasta per la sua popolazione di un milione e mezzo di abitanti, pochissimo industrializzata, ha una profondissima cultura agro-pastorale che utilizza terreni impervi senza uso di macchine. Con moderni impianti eolici e fotovoltaici può essere indipendente energeticamente, visto che sole e vento non mancano. In pochi anni, se il suo mare non fosse più arato e distrutto dai pescherecci a strascico, diventerebbe di nuovo ricchissimo di pesce che potrebbe essere pescato con piccole unità costiere. Praticamente un paradiso dove cercherebbero di sbarcare clandestinamente i leghisti in fuga dalla Padania.
Paolo De Gregorio

Messaggi

  • UNA SEMPLICE “SCIOCCHEZZUOLA”

    di G. La Grassa

    Leggo su Indipendenza la recensione di Bontempelli ad un libro di Latouche sulla decrescita. Lungi da me mettermi a fare le pulci alla recensione su argomenti che mi interessano così relativamente. A mo’ di vacanza, mi fisso su un solo punto che mi sembra abbastanza indicativo di un modo di pensare. Scrive il recensore, su stimolo evidente di Latouche, che decrescita non significa la scelta di diminuire il nostro tenore di vita. Come esempio, tira fuori quello di uno che desidera mangiare ciliegie. Le può mangiare egualmente; basta che, invece di consumare quelle turche importate, si fornisca dagli agricoltori del proprio distretto agricolo. Si risparmiano, così facendo, i costi di trasporto dalla Turchia (costi comprensivi di quelli del combustibile a ciò necessario, che Bontempelli considera invece aggiuntivi a quelli di trasporto); in questo modo, il Pil decresce, ma il consumatore è egualmente soddisfatto.

    Un esempio è un esempio, e naturalmente è sempre semplificatore di una situazione. Qui, però, non c’è solo semplificazione (ammessa), ma alterazione del problema secondo un’ottica deformante. Coltivare e produrre ciliegie nell’adiacente distretto agricolo comporta dei costi (in materie prime, compreso il concime, e lavoro) che, anch’essi, incrementano il valore calcolato del reddito nazionale. Bisogna inoltre valutare se il terreno, il clima ecc. sono adatti all’uopo o se invece il costo di trasporto (sopra citato) non sia, in definitiva, inferiore al locale costo di produzione. Come esempio estremo si pensi a Lyssenko che voleva produrre arance in Siberia (per rendere “autosufficiente” l’URSS a tal riguardo). In definitiva, non è per nulla certo che, producendo le merci in loco, si soddisfi lo stesso consumo e nel contempo si verifichi una decrescita (che, nell’esempio fatto, mi sembra in definitiva identificata con una riduzione di costi). Si tenga ancora conto che eventuali forzature in termini di produzione in proprio potrebbero condurre ad esaurimento dei terreni, inquinamento di corsi d’acqua per via di concimi e altro, dell’atmosfera a causa dei combustibili usati dalle macchine per lavorare i campi e raccogliere i prodotti, ecc. Dove va a finire l’ambientalismo? Si deve dunque fare tutto a mano? Allora i consumatori, con la stessa spesa, potrebbero procurarsi forse un decimo delle ciliegie (turche) importate.

    Mi sembra sarebbe meglio ragionare in termini di profitti ottenuti nei vari casi, nonché del potere e dell’influenza politica dei gruppi importatori rispetto ai semplici agricoltori (quasi sempre anch’essi dei piccoli o medi capitalisti). Si può arrivare egualmente ad una critica di certe politiche di importazione invece che di coltivazione nelle vicinanze, ma senza bisogno di invocare le “bellezze” della decrescita. Poi, mi si consenta di dire che si trascurano una serie di altri fattori non direttamente economici: per esempio l’inserimento in una Comunità come quella europea, che attua certe politiche e non solo in campo strettamente produttivo (ed economico in genere). Ci sono poi i rapporti bilaterali tra uno Stato e l’altro, che talvolta comportano tutta una serie di ulteriori “adattamenti” di convenienza reciproca, o magari di necessario cedimento dell’uno di fronte a più forti pressioni dell’altro, a sue “offerte che non si possono rifiutare”.

    Ed è qui che, in modo particolare, “casca il palco” delle tesi della decrescita. Proprio l’esempio scelto (le ciliegie), nonché il ragionamento svolto, sono indicativi della loro ottica, che è quella del consumo. Esse si pongono “dal lato della domanda”, vorrebbero portare acqua alla critica del consumismo, della cultura che rende “atomizzati” gli individui nel capitalismo. Viene persa la grande lezione “classica” – ed in questo senso, solo in questo, Marx era un loro seguace – della produzione, del “punto di vista” di chi pone in essere le merci. Il difetto di tale impostazione stava nel suo economicismo, nell’avere affidato le sorti delle nostre decisioni – considerate strettamente dipendenti da quelle effettuate in campo economico – alle virtù dello “spontaneo” meccanismo che muove la “libera” concorrenza nel mercato. Dobbiamo certamente andare oltre l’economicismo, ma sempre con l’ottica della produzione. Tutti i blandi critici riformisti della nostra società – che pure talvolta fingono una terribile radicalità, proprio come gli ambientalisti e i “decrescenti” – pensano che, per andare oltre l’economicismo e contrastare il potere dei produttori (in genere monopolisti), sia sufficiente denunciare la loro capacità di condizionare e indirizzare i “poveri” consumatori (con la pubblicità, dunque i mass media, e via dicendo); una simile “contestazione” non va oltre quella già condotta da Joan Robinson e altri (keynesiani) ben oltre mezzo secolo fa.

    E’ invece indispensabile puntare i riflettori sulla potenza intrinseca ad un conflitto di strategie per la supremazia (non soltanto economica, ma che ricomprende in definitiva anche quest’ultima); un conflitto che vede dunque in campo un complesso intreccio di agenti dominanti economici e politico-ideologici, da cui si deve iniziare a districarsi. Si obietterà che si tratta di potenza e conflitto intrinseci al sistema capitalistico, al sistema dei rapporti di dominio/subordinazione in questa società, ecc. Certamente; di grazia, in quale altro sistema crediamo di operare? E crediamo di uscire dal gioco tramite la semplice decrescita? O convincendo gli individui che dobbiamo battere il capitalismo perché le estati (o inverni) non sono mai stati così caldi da cent’anni (taluni sparano anche da 200 anni) a questa parte, perché si sciolgono i ghiacciai e dovremo infine ritirarci quanto meno in collina dato che le pianure saranno conquistate dal mare? Ecc. ecc. Cerchiamo di tornare alla vecchia “analisi di classe”, magari un po’ (molto) meno semplificata di quella di un tempo.

    In un famoso convegno di scrittori all’inizio degli anni ’30, dopo essere stato zitto per ore ad ascoltare il loro inconcludente chiacchiericcio, Brecht andò sul palco e disse: “adesso cominciamo a parlare di rapporti di produzione”. Fu naturalmente guardato con smarrimento dai suoi ignari colleghi. Aggiorniamo pure la sua frase: parliamo dei rapporti di forza, dei conflitti tra capitalismi, delle possibilità di rinsaldare alcuni fronti di opposizione a tale forma di società. Non battendoci certamente per la mera distribuzione – come fanno i rancidi residuati “comunisti” e “marxisti” d’oggidì, con in testa il solo conflitto capitale/lavoro – bensì per la trasformazione, appunto, dei “rapporti di produzione”. Senza continui escamotages e giravolte nell’ambito della sfera della “domanda”. La critica anticapitalistica la smetta di cincischiare con il preteso “consumismo”, con il potere dei produttori (le multinazionali) di condizionare gli individui atomizzati; riaffronti invece i grandi problemi dell’uso della potenza, insiti negli scontri strategici interdominanti che cominciano a palesarsi con sempre maggior chiarezza, con molta più evidenza che nell’epoca della “guerra fredda” tra i “due campi”.

    • Sarei fondamentalmente d’accordo con La Grassa se non fosse che la vis polemica del suo intervento — forse anche al di là delle sue intenzioni — mette in ombra le potenzialità politiche (nel senso di una presa di coscienza di massa) della critica al capitalismo dal punto di vista di tutto ciò che ricade fuori dell’ambito ristretto del conflitto capitale-lavoro, o se si vuole, profitto-salario. In altre parole, di tutti quei punti di attacco al capitalismo secondo cui esso è invivibile anche al di là dello statuto del salario come mero costo di produzione, e dell’inevitabile sistema di privilegio che ciò implica.

      La decrescita, da questo punto di vista, è una interessante descrizione antropologica dell’homo capitalisticus (che riassume tanto il ruolo del capitalista quanto quello del proletario) e del degradato e degrandante habitat sociale in cui egli vive, criticamente penetrante proprio perché utilizza il linguaggio dell’economia politica, e decostruisce dall’interno i dettata del neoliberismo.

      Prendiamo atto, per favore, che nel mondo la conflittualità apertamente anticapitalista appare al momento alimentata solo da condizioni di pauperismo, vedi la base politico sociale di Hugo Chávez, Evo Morales e Raphael Correa, assai più aderente al concetto di lumpen-proletariat, per la sua condizione di storica emarginazione, che a quella di proletariato. Le maestranze operaie sono anzi spesso fredde a questi cambiamenti, incerte se mettere in discussione l’approccio di un sindacalismo negoziante privilegi con le aristocrazie creole dell’America Latina.

      E su questa base che dire allora dell’Europa e degli Stati Uniti, il cui livello di consumi e soddisfazione materiale è tanto più alto e più diffuso? La gente mostra più ansietà e diffidenza alla prospettiva di un cambiamento che non insoddisfazione per l’iniquità della distribuzione del reddito, il tutto in un contesto socio-economico in cui il compromesso keynesiano di una grande spesa sociale che sostiene la domanda aggregata consente un certo generale equilibrio economico, e l’impatto limitato delle crisi.

      Spero che non vorremo scommettere sullo scivolamento all’indietro del ceto medio — in pieno sviluppo — e alla sua crescente proletarizzazione, dato che io credo ciò apra prospettive reazionarie con altrettanta probabilità (e forse di più) che prospettive rivoluzionarie.

      Il discorso della decrescita — al di là delle critiche di stretta razionalità economica che muove La Grassa — consente di diffonderse l’acuirsi della percezione sul degrado delle condizioni di esistenza degli individui che vivono nell’intera area sociale determinata dai processi di produzione capitalistica, e non solo nei settori dello sfruttamento neocoloniale.

      Saluti

      Gianluca Bifolchi

  • Spesso vedo fare il gioco delle tre carte sulla nostra testa, qualunque sia il problema. Prendo in considerazione qui la decrescita felice. Cominciamo con quella demografica: come dice lei, le religioni spingono a non usare mezzi di contraccezione per avere più accoliti, i poteri economici spingono per avere più consumatori dal pannolino alla moda giovane e via dicendo, per contro per esempio la dittatura cinese permette solo una gravidanza. Basta! Se permettete lo decide la donna, che se magari la fate innamorare prende anche in considerazione volentieri il vostro punto di vista maschile. Solo una scema, una debole o una schiava fa figli quando non è il momento, le altre evitano, se non altro per istinto, come gli animali perchè vogliono dare la vita, non un numero in più. Poi l’ambientalismo: visto che lei ne parla prendiamo ad esempio la Sardegna, gli impianti eolici e il razionamento dell’acqua. Siamo tutti felici che si faccia qualcosa per la natura, ma io vorrei dire ai politici che se vogliono essere coerenti comincino a mettere le pale e a evitare l’uso dell’acqua potabile nelle piscine private sulla Costa Smeralda e a villa Certosa, non comincino dai contadini che coltivano la terra, sono certa che anche un’analfabeta accetti poi disagi e limitazioni nella sua proprietà se si opera nella giustizia e tutelando il suo diritto alla sopravvivenza. Se poi ci si toglie anche un pò di inutili cavilli fiscali tipo il registratore di cassa, e non lo dico per non fare gli scontrini, ma semplicemente perchè poi qualsiasi fiscalista o disgraziato incappato nei controlli sa che sono gli studi di settore a dire cosa devo pagare, saremmo tutti ben contenti di andarcene a pescare con la canna da pesca e a curare l’albero di ciliegie alla faccia di quelle turche al posto di spingere i clienti al consumo per pagare, luce, carta e verifica annuale per il registratore. Ma non si può, il pil per questo deve sempre aumentare, possiamo solo farci quattro risate leggendo su http://www.nonsolotigullio.com/tipidabar/?IDpagina=3310 e su http://www.nonsolotigullio.com/tipidabar/?IDpagina=3311 .Saluti. Anna M: Caputano