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recensione di Shantaram di Gregory David Roberts

Publie le mercoledì 17 gennaio 2007 par Open-Publishing

Gli italiani sono gli indiani d’Europa – sostiene Lin, protagonista di Shantaram (Neri Pozza, euro 22, pag.1184), e a ben vedere si tratta di un’affermazione per niente incongrua, anzi, il lettore avrà presto il modo di accorgersi che in realtà ha tutti i connotati del complimento. L’inventiva, l’innata prerogativa di industriarsi nelle difficoltà e soprattutto la capacità di vedere e agire col cuore, prima ancora che con la testa, ci accomunerebbero non meno di una burocrazia pervicace e della corruzione latente.
Sarebbe una leggerezza, dunque, liquidare come un trito clichè la posizione di Gregory David Roberts, australiano e fuggiasco, prima di essersi immersi nel fetore e nello splendore della Bombay che emerge da questa saga avventurosa e intima, più vicina a Conrad che a Melville, già diventata un caso letterario a pochi mesi dalla pubblicazione.

Bellissima e invivibile, corrotta e sorprendente, la prima metropoli asiatica, la Manatthan dell’India, l’agglomerato urbano più popoloso del mondo, incredibilmente simile ad una Napoli cresciuta a livello esponenziale questo luogo è l’epitome, come afferma il giornalista e scrittore Suketu Metha, della “città degli eccessi”, dove ognuno riesce a sentirsi individualmente multiplo.
Bombay, anzi Mumbay, ti stordisce letteralmente con la sua umanità, ti annichilisce con il suo rumore incessante e ti sfianca con un clima infernale. Non ti lascia scelta e non c’è possibilità di rimanerne indifferenti; o la odi o la ami, e per Lin, alias Roberts, è amore a prima vista. Un amore incondizionato in quanto espressione di una libertà agognata e irraggiungibile, che il nostro protagonista ricerca nel corso di un tortuoso pellegrinaggio interiore calandosi, ultimo tra gli ultimi, negli slum dove la vita è precaria e si conquista giorno per giorno.

La Mumbay narrata in Shantaram è rappresentata in un crogiuolo di razze ancora indenne dalle faide interreligiose che caratterizzeranno la prima metà degli anni Novanta; un luogo dove indù e musulmani sembrano ancora capaci di una convivenza, dove il fenomeno di Bollywood è esploso e sta per essere esportato anche sui mercati esteri mentre la città vive del fermento e dell’eccitazione all’apparire delle nuove tecnologie e del miraggio di un arricchimento facile e veloce.

Qualcuno ha avanzato la proposta di fare di questa isola che si protrae nel mare Arabico uno stato sovrano, sul modello di Singapore, e non è difficile arguirne le motivazioni puramente economiche, dal momento che proviene da qui circa il 39% delle entrate fiscali dell’intera India. Ma Mumbay vuole anche dire cinque milioni di persone che ancora oggi non hanno accesso ai servizi igenici e sono costrette ad estenuanti file per assicurarsi quel poco di acqua, spesso inquinata, necessaria al fabbisogno giornaliero. Uno dei luoghi al mondo dove l’agiatezza di un individuo si misura con lo spazio fisico di cui può disporre, col silenzio che riesce ad interporre tra sé e il mondo esterno, e in massimo grado con la solitudine, la cifra che contraddistingue i veri ricchi da tutti gli altri
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Nel muoversi tra queste quinte, Lin è attorniato da una serie di figure di contorno delineate secondo una sceneggiatura semplice ma efficace e coinvolgente, in grado di mantenere il ritmo narrativo nonostante le quasi milleduecento pagine del romanzo. Tutto ruota attorno all’unica motivazione che spinge il protagonista in un turbinio di avventure in apparenza accidentali, ma con una pericolosa coazione a ripetersi. Come il carcere, sperimentato in Australia e rivissuto in India; come la scelta di indossare i panni del "gunda", il gangster affiliato al clan di Khader Khan, il boss dei boss, il padrone della città, ancora un’escursione in un mondo conosciuto e difficile da rimuovere. La libertà è la sola cosa per cui valga la pena di vivere – afferma Lin durante una cena con i maggiorenti del clan mafioso, non la ricchezza o il potere. Ma si tratta di una libertà che nel suo caso appare trasfiguarata dall’accettazione e dall’espiazione di un passato da cui sembra impossibile emanciparsi. Un passato rievocato di continuo e non ancora metabolizzato. La salvezza, se esiste, potrebbe scaturire dall’amore per Karla, ma si tratta di un altra anima in fuga e per di più poco incline a mettere ordine nella propria vita. Ogni scelta, perseguita dal protagonista, sembra dettata e condizionata da una volontà superiore, un destino ineluttabile dove il compromesso non è accettato.

Come nella parentesi afgana del romanzo, che fa di Lin un combattente alquanto inconsapevole della "jihiad" contro l’occupante russo, senza una motivazione che non sia riconducibile ad un male interpretato senso di riconoscenza nei confronti di Khader, che lo ha salvato dall’inferno del carcere, ma solo al momento per lui più opportuno. Dopo tutto Khader è un uomo di carisma, molto colto, a suo modo filosofo, ma anche un assassino. Scampato miracolosamente ad una guerra non sua, Lin torna a Bombay e riprende il filo di un’esistenza criminale sulla scorta della vecchia abitudine piuttosto che di una vera convinzione. L’ineluttabilità del male sembra sostenuta da un irrimediabile impulso all’autodistruzione, anche se una luce resta accesa, preparando il lettore ad una svolta annunciata e attesa.

Il successo planetario di Shantaram (dal sanscrito “colui che porta la pace”), getta le fondamenta su un plot narrativo molto coinvolgente, con i tempi ritmati nel modo giusto, ma soprattutto sullo straordinario quadro che Roberts offre della metropoli indiana e dei suoi abitanti che, miserabili o potenti che siano, hanno tutti in comune una convinzione, e cioè che al mondo esista un posto ed un solo posto dove valga la pena di vivere: Mumbay.