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La guerra globale ce l’abbiamo dentro casa, anche se non si vede

Publie le lunedì 14 agosto 2006 par Open-Publishing

Dazibao Guerre-Conflitti Tommaso Fattori

di Tommaso Fattori

Che ci fa una base militare statunitense, fra Pisa e Livorno, a oltre sessant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale? Perché la Nato è sopravvissuta al collasso del blocco sovietico e del patto di Varsavia? Risposta: vecchi involucri racchiudono le nuove forme della guerra permanente. Nuove forme, come il passaggio da un’alleanza atlantica “difensiva” ad un’alleanza oggettivamente offensiva (“organizzazione di sicurezza”), sui pilastri dell’ossimorica guerra umanitaria e dell’esportazione della democrazia con i missili.

Mentre in Pakistan si sostiene con entusiasmo un dittatore golpista e in Arabia Saudita una monarchia assoluta e anticostituzionale, in altre terre un irrefrenabile afflato di libertà suggerisce di bombardare per affermare il diritto a libere elezioni, esercitabile dai fortunati che scamperanno a guerre e guerriglie. Da una “civiltà” (diciamo “occidentale”) che beve coca cola o acqua in bottiglia e si fa la doccia con l’acqua potabile, penserà un assetato mediorientale, non c’è da aspettarsi granché. Eppure il progetto è grandioso: generare un nuovo Nomos della terra, un diritto del più forte, sulle rovine del diritto internazionale sorto all’indomani dei due conflitti mondiali.

Sono allora guerre costituenti, volte ad edificare un equilibrio predatorio e un nuovo ordine globale, che poi è il ritorno a forme di potere assoluto, economico e politico. Di ciò che era in origine, l’Onu mantiene oggi l’involucro e poco più: la massima violazione della Carta delle Nazioni Unite è per l’appunto l’aggressione, le cui caratteristiche definitorie sono due, l’essere un’azione militare “unilaterale” e “preventiva”.

Ma, argomentava già Thomas Hobbes, la guerra permanente a lungo andare non conviene a nessuno, neppure al più forte, come dimostra il cortocircuito guerra-terrorismo e i “pantani” iracheno e afghano.

Al criceto nella gabbietta sembra che continuare a correre nella ruota sia l’unica strada possibile. In questo mondo squilibratissimo c’è chi pensa che l’enorme divario debba essere mantenuto col sangue e con i denti - “the American lifestyle is not negotiable” -sia che ciò significhi non ratificare gli accordi di Kyoto (e quindi soffocamento planetario) sia che significhi inviare centinaia di migliaia di soldati a spasso per il globo.

Se i 225 personaggi più ricchi della terra hanno, da soli, un reddito annuo superiore a quello del 45% dell’umanità (oltre due miliardi e mezzo di persone), la guerra diviene il modo con cui governare unilateralmente una simile follia senza il consenso di chi abita il pianeta e senza toccare i meccanismi di produzione e distribuzione della ricchezza. Che poi la corsa alla crescita infinita (in un mondo dalle risorse finite) o che l’autoavvelenarci con i nostri stessi consumi sia la prospettiva meno realistica e meno carica di futuro anche per noi pochi “privilegiati” del pianeta, questo, ai “realisti” armati fino ai denti, sembra un ragionamento dal sapore quasi metafisico.

E la Toscana che c’entra? La guerra è infinita perché è senza tempo («decideremo noi quando finirà» dice l’amministrazione statunitense, e in questi giorni ripete il governo israeliano) ma pure perché è senza spazio: ogni spazio è spazio di guerra. Territori concreti dove non sempre, però, questo elemento è “visibile”.

Dovremmo ragionare sulla coppia visibile/invisibile: i dispositivi di controllo e dominio sono tanto più pericolosi quanto meno sono manifesti. Pericoloso è quando Guantanamo non si vede: quando Guantanamo è uno sperduto Cpt. Insidioso è quando dietro l’orrore di un teatro di “guerra guerreggiata” vi è un’apparentemente sonnacchiosa Camp Darby, in mezzo a cipressi e pini. Preoccupante è quando l’aeroporto militare di Grosseto ospita i caccia Eurofighter freschi d’acquisto.

L’unica certezza di ogni manovra finanziaria, sia detto per inciso, è che i tagli non riguarderanno la spesa militare: fra l’acquisto degli Eurofighter (121), delle nuove fregate (10) e della portaerei Conte di Cavour abbiamo già messo insieme un punto del Pil. Non potremmo cominciare da qui? E non potremmo iniziare con l’espellere i pezzi di guerra che si incistano nel nostro territorio, mostrando che sono invece possibili altre economie e altre relazioni con il mondo?

Far saltare anelli locali significa spezzare la catena della violenza planetaria: la guerra globale si regge grazie a infiniti nodi locali. La costruzione di un altro mondo passa attraverso l’azione territoriale e la costituzione di nodi di una rete altrenativa.

C’è anche un altro elemento, a proposito di connessioni nascoste o non immediatamente evidenti. La guerra in Libano è ancora un tassello della geopolitica al tempo dell’esaurimento delle risorse (si pensi ad acqua e petrolio): un pezzo della nuova geografia dell’esclusione. Questa forma di globalizzazione uniforma i territori tanto nel segno della guerra quanto nel segno della merce. Vi è un nesso strutturale fra guerra infinita e infinita mercificazione del mondo. La pace non è semplice mancanza di guerra ma giustizia sociale, redistribuzione della ricchezza, uso collettivo e non predatorio dei beni comuni.

Ma allora costruire la pace vuol dire interrompere la privatizzazione del pianeta. Insomma, che fare dei beni comuni dell’umanità? Condividerli e redistribuirli o inseguire la strada della privatizzazione, dell’“esclusione” e della guerra? Dobbiamo procedere sulla via delle energie fossili, fonti di conflitti infiniti oltre che di grandi profitti, o delle energie rinnovabili, producibili localmente e gestibili in modo democratico e partecipato? Un raggio di sole o un soffio di vento non possono essere racchiusi in un barile e venir commercializzati: la pace è anche questo.

La responsabilità, rispetto a tutto ciò, non si colloca al di là di ciascuno di noi né investe solo territori lontani da quelli che abitiamo. Il processo deve avere mille epicentri: occorre trasformare i luoghi in cui viviamo e impedire da subito che qui i beni comuni siano tramutati in beni economici e i servizi pubblici siano privatizzati.

Non esistono scelte locali che non abbiano un significato globale. Non è possibile essere pacifisti e acconsentire alla mercificazione del mondo in nome del libero mercato. Se la Toscana non solo percorrerà la strada della smilitarizzazione (chiusura delle basi, liberazione da armi pesanti e leggere, riconversione delle fabbriche d’armi e creazione di laboratori di pace e di diplomazia dal basso), ma sarà allo stesso tempo terra di sperimentazione di nuove forme pubbliche di gestione dei beni comuni; se mostrerà che la partecipazione dei cittadini è una strada per uscire dalla crisi della democrazia globale; se inaugurerà forme solidali di partenariato pubblico-pubblico, allora contribuirà alla costruzione di una vera pace globale. Non vedo altro realismo possibile.

http://www.liberazione.it/giornale/060723/LB12D6C9.asp