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Afghanistan: si riapre la discussione sulla strategia politica

Publie le mercoledì 13 settembre 2006 par Open-Publishing
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Dazibao Guerre-Conflitti Governi Franco Ferrari

di Franco Ferrari

Le ultime notizie sull’evoluzione della situazione militare in Afghanistan hanno riaperto la discussione sulla presenza italiana in quel Paese, in vista di un nuovo possibile scontro all’interno della maggioranza di centro-sinistra quando si dovrà decidere un ulteriore rifinanziamento della missione.

Le posizioni espresse in questi giorni ricalcano quelle emerse già nelle precedenti occasioni, sull’opportunità o meno del mantenimento di truppe italiane, attualmente dispiegate a Kabul e nella provincia occidentale di Herat.

Prodi e Parisi hanno riaffermato la necessità di restare, con la motivazione che occorra mantenere gli impegni assunti dall’Italia in sede internazionale ed impedire che l’Afghanistan cada in mano ai talebani, diventando un santuario del “terrorismo internazionale”.

Contemporaneamente, Prodi ha confermato l’impegno a mantenere il compromesso raggiunto nei mesi scorsi, ovvero a non incrementare il numero dei militari italiani e a non spostare truppe nelle zone di guerra. Da rilevare, all’interno del governo, un accento diverso da parte del ministro degli esteri D’Alema, per il quale occorre aprire il confronto nelle sedi internazionali sullo stato e sulle prospettive della presenza militare in Afghanistan.

Sul versante della sinistra pacifista si riafferma la contrarietà alla presenza di soldati italiani in Afghanistan, che rischiano in tempi relativamente brevi di essere direttamente coinvolti nell’estensione del conflitto e quindi di diventare attori della guerra voluta dagli Stati Uniti nel 2001, con l’operazione “Enduring Freedom”. Viene sottolineata a questo proposito l’evidente differenza con la situazione libanese dove la presenza militare italiana, sotto la diretta responsabilità politica dell’ONU, ha contribuito a mettere fine ad una guerra in corso.

Da questo lato dello schieramento politico emerge, a fianco della richiesta del ritiro delle truppe, l’esigenza di una strategia politica più articolata sulla vicenda afgana con l’editoriale pubblicato su Liberazione dal Senatore Francesco Martone del PRC, nel quale si afferma la necessità di discutere le alternative di un possibile intervento politico, umanitario, di sostegno alla ricostruzione in Afghanistan. Credo che questa presa di posizione, come quella della Senatrice Lidia Menapace, anch’essa pubblicata su Liberazione, vada nel senso di definire quella che in un mio precedente articolo avevo indicato come “alternative strategy”, che contenga ma non si riduca alla “exit strategy”, cioè al ritiro delle truppe militari.

Non bisogna nascondersi che le ragioni politiche dell’intervento in Afghanistan, che vede la partecipazione diretta della Nato e il sostegno dell’Unione Europea, e che si propone di affermare il multilateralismo della guida politica della coalizione dei Paesi occidentali, in contrasto con l’unilateralismo praticato dall’Amministrazione Bush, renderà molto più difficile spostare l’orientamento oggi maggioritario nella coalizione di centro-sinistra. Senza perdere di vista o indebolire l’obbiettivo di fondo del ritiro delle truppe (le cui ragioni sono condivise anche da ambienti militari, come dimostrano gli interventi del gen. Mini) è necessario mettere in campo una articolazione di obbiettivi.

Fondamentale per questo è giungere ad una analisi meno occasionale della vicenda afgana e individuare le diverse questioni che essa solleva. Non si può dimenticare che la presenza di truppe è frutto di una strategia innanzitutto politica, ed è questa che va analizzata e contrastata nei suoi vari aspetti. Per questo il discorso della sinistra pacifista non può ridursi al richiamo all’art. 11 della Costituzione (di cui pure va difesa e sottolineata tutta la valenza ideale e politica).

In Afghanistan, come in Libano, Palestina ed Iraq entra in gioco una valutazione su quale debba essere il ruolo della sinistra pacifista e alternativa. Scontato il rifiuto dell’approccio ideologico che sostiene l’Amministrazione Bush, confluenza pericolosa di fanatismi “neo-con” e “teo-con” oltre che di concreti interessi materiali di grande potenza imperiale. “Guerra di civiltà”, “guerra al terrore”, “scontro con l’islamo-fascismo”, “nuovo Medio Oriente”: questa impalcatura propagandistica si è tradotta in una serie di scelte politiche che stanno devastando tutta la regione. Al centro di tutto vi è la scelta della guerra come principale strumento riordinatore degli equilibri strategici e politici.

Questa offensiva politica, ideologica e militare degli Stati Uniti registra oggi una crisi evidente, come attestano le critiche sempre più esplicite e impietose che vengono dallo stesso establishment politico militare americano. Basti leggere gli interventi sull’Iraq di uno specialista militare, tutt’altro che pacifista, come Anthony Cordesman del Centre for Strategic International Studies, o sulle questioni palestinesi e in generale sull’islamismo politico, di un ex “intellettuale della CIA” come Graham Fuller, già vice presidente del National Intelligence Council, per capire la perdita di terreno della destra fondamentalista che gestisce la politica estera degli Stati Uniti. Anche la maggiore aggressività dei Democratici nel criticare il Presidente, dopo anni di timidezza e subalternità, è indicatrice di un possibile mutamento del clima politica negli stessi Stati Uniti.

In questo quadro, la sinistra pacifista e alternativa deve darsi strumenti di analisi più solidi e elaborare una prospettiva politica più concreta che riguardi tutta l’area mediorientale e il rapporto con l’islamismo, non limitandosi ad affermazione generali giuste ma insufficienti. La difficoltà che emerge a volte ad articolare una valutazione politica precisa di quanto accade in Iraq, in Iran o in altre parti dello scacchiere, deriva non solo dalla oggettiva complessità dei processi in atto, ma anche da un dibattito politico ancora inadeguato.

La formulazione di una strategia politica della sinistra alternativa e pacifista per il Medio Oriente in generale (e per l’Afghanistan in particolare) devono distinguersi anche dalle posizioni cosiddette “antimperialiste”. Intendo quelle tesi che in pratica accettano l’analisi “neo-con” di uno scontro bipolare tra il bene (la democrazia, la libertà,ecc.) e il male (l’islamo-fascismo, il terrorismo, ecc.), da giocare principalmente sul terreno militare. La lettura “antimperialista” parte dallo stesso presupposto: l’esistenza di uno scontro tra due campi ideologicamente definiti in cui le ragioni e i torti si misurano in termini militari. Basta solo invertire le polarità di valore: da un lato l’imperialismo, il capitalismo, le multinazionali, ecc. dall’altro i popoli, la resistenza ecc. In questo modo si arriva all’esaltazione acritica di movimenti, che vanno ovviamente analizzati con attenzione e di cui vanno colte le molte differenze interne, quanto il fatto di essere a volte portatori di ragioni ed esigenze fondate dei rispettivi popoli, ma di cui non va cancellata la natura sostanzialmente reazionaria. Insomma per sconfiggere i “teo-con” (teo-conservatori) non c’è bisogno di diventare “teo-com” (teo-comunisti).

Detto in estrema sintesi, l’emergere di una prospettiva democratica, pacifica e socialmente giusta in Medio Oriente non può che passare da una reciproca sconfitta delle politiche dell’Amministrazione USA e del fondamentalismo politico islamista, per favorire la quale è indispensabile interrompere e invertire la crescente militarizzazione dello scontro politico.

Tornando all’Afghanistan ciò significa che la proposta di ritiro dei militari va inserita in una strategia più ampia, che si colleghi ad una diversa visione di dove debba andare il Medio Oriente (inteso in senso lato come area di presenza dell’attivismo islamico) e di quali politiche alternative concrete si possano mettere in campo utilizzando a tal fine tutte le leve, di movimento e di politica istituzionale, nazionali e soprattutto sopranazionali che sono a disposizione

La prospettiva di fondo in cui muoversi è di sconfiggere la strategia della “guerra preventiva e permanente” senza accettare passivamente che l’Afghanistan registri il ritorno al potere dei talebani e con loro di un nuovo blocco politico-militare fondamentalista-reazionario. La prospettiva strategica potrebbe essere indicata in modo relativamente semplice. Dal punto di vista militare e della legittimità internazionale il caso afgano rappresenta un modello intermedio tra quello irakeno (guerra di aggressione e di occupazione) e quello libanese (interposizione tra belligeranti per aprire la strada ad una soluzione politica dei problemi).

L’ISAF è legittimata da un mandato ONU ma non è una forza che risponde direttamente alle Nazioni Unite ed è formalmente uno strumento di stabilizzazione e di assistenza (di peacekeeping o mantenimento della pace) che si sta trasformando in forza di guerra a tutti gli effetti. Con l’estensione alle province meridionali dove sta riprendendo forza la resistenza talebana, e la prospettata unificazione con l’operazione americana “Enduring Freedom”, assumerebbe compiti definiti dagli strateghi militari di “contro-insurrezione” e “contro-terrorismo”. Si trasformerebbe in una presenza sempre più ostile verso una parte crescente della popolazione come avviene per la presenza americana e britannica in Iraq. Si dovrebbe invece prendere la direzione opposta, con l’effettiva chiusura di “Enduring Freedom”, il ritiro del comando NATO, e la costruzione di una forza multinazionale di pace orientata a garantire il processo di smilitarizzazione del Paese e di tutela dalle possibili incursioni aggressive dai Paesi vicini (in particolare dal Pakistan). E’ evidente che questa è una ipotesi che al momento non può che restare puramente teorica ma non è detto che non possa diventare una opzione più realistica nel medio periodo.

Oggi si scontra con due elementi che stanno alla base delle scelte politiche dei governi che hanno mandato truppe in Afghanistan. Il primo riguarda il concetto di “nation-building”, costruzione della nazione, che qualcuno definisce più precisamente come “state-building”, essendo il concetto di Stato più determinato e verificabile di quello di “nazione”. Ci si deve chiedere se e in che modo un intervento esterno, anche e soprattutto non militare, possa e debba condizionare le vicende politiche interne ad un Paese. L’esperienza storica della sinistra aveva portato ad affermare il principio della difesa dell’indipendenza nazionale come valore assoluto, che si legava al rifiuto di azioni definite come tentativi di esportazione militare del socialismo o alla “teoria della sovranità limitata” avanzata dalla direzione sovietica. Anche in un caso come quello dell’intervento vietnamita in Cambogia che portò alla fin de regime di Pol Pot, ci fu una condanna di principio, a prescindere dal fatto quell’iniziativa militare portasse ad un esito sostanzialmente positivo per il popolo interessato.

Se quelle prese di posizione rappresentavano un passo avanti, perché indicavano una rottura seppur tardiva e a volte timida, con una logica di appartenenza ad un “campo” politico, ideologico e militare, oggi la crisi dello stato-nazione, il riflesso dei processi di globalizzazione e la riformulazione dell’internazionalismo derivata dal movimento “no-global” ci ripropongono il tema in modo diverso. Nel caso specifico dell’Afghanistan si pone il problema di come sostenere politicamente e praticamente quelle forze interne che si muovono sulla lunghezza d’onda di una processo di democratizzazione, pacificazione e approccio non violento ai conflitti politici, giustizia sociale. Il che significa prima ancora riconoscerne l’esistenza e dare loro la parola.

Altro tema a cui la questione della presenza militare italiana in Afghanistan ci propone è quello del ruolo e delle prospettive della NATO. Non c’è dubbio che per l’establishment politico-militare europeo (di centro-destra o di centro-sinistra) il “successo” della missione ISAF è importante, più che per il futuro degli afgani, per quello del patto militare atlantico che aveva perso la sua ragion d’essere con il crollo del blocco sovietico. La capacità di intervenire militarmente al di fuori del teatro europeo è considerato importante per dimostrare che la NATO è ancora necessaria per far fronte alle nuove “minacce” del futuro che possono arrivare da qualsiasi parte del mondo, il “terrorismo”, e da soggetti “non statuali”.

La posizione della sinistra pacifista, del tutto fondata, è che la NATO così impregnata dalla sua condizione originaria di strumento della guerra fredda e dall’idea che i conflitti politici, sociali ed economici esistenti nel mondo possano avere una soluzione prioritariamente militare è fondamentalmente irriformabile. Il suo superamento, obbiettivo sicuramente di non ravvicinata realizzabilità, non può essere raggiunto semplicemente ripescando i vecchi slogan degli anni ’50 e ’60 poi andati in disuso, e che oggi non riescono a trovare un eco di massa, anche se possono riscaldare il cuore di qualche militante, ma formulando una strategia alternativa a quei problemi ai quali altri vogliono dare risposta rilanciando il ruolo della NATO: come si accresce la sicurezza collettiva, come si interviene in soluzioni di crisi, come si controllano soggetti militarizzati non- statuali, ecc. Avendo altresì l convinzione che non c’è risposta se non rimettendo in discussone le condizioni politiche, economiche, sociali strutturalmente ingiuste.

Anche per l’Afghanistan non si può sfuggire ad alcuni di questi nodi, non risolvibili con la pur giustificata richiesta di ritiro della nostra presenza militare. Anche per questo credo sia utile aprire la discussione e arrivare a formulare proposte su tutti i principali aspetti politici posti dall’azione della NATO e dell’Italia. Non si può accettare che sull’Afghanistan “non si discuta” come dice il Ministro Parisi. Le forze politiche della maggioranza di governo favorevoli al mantenimento delle truppe devono essere sfidate al confronto non solo sulle premesse politiche della scelta che sostengono ma anche sulla loro concreta efficacia misurata sugli obbiettivi che vengono dichiarati: pace, riduzione del pericolo terrorista, democratizzazione del Paese.

Esiste ormai una vastissima letteratura critica sugli errori commessi nella gestione dell’intervento in Afghanistan: dal forzato sradicamento delle colture d’oppio, alle pesanti e continue interferente degli Stati Uniti sulla politica afgana che ha delegittimato le nuove istituzioni, all’inefficacia di molti interventi di ricostruzione, soprattutto perché condizionati dalla subordinazione alle esigenze militari.

Anche in una parte di coloro che pure hanno sostenuto l’azione militare americana di Enduring Freedom e poi l’estensione della missione ISAF, si sta affacciando la convinzione che sia proprio la presenza militare occidentale ad alimentare la crescita della resistenza talebana, fornendo nuovi elementi di tensione e di conflitto. Per questo è necessario che il Governo italiano sia chiamato ad assumere una posizione critica su tutta la gestione dell’intervento militare, utilizzando a tal fine soprattutto la sede ONU che sarà chiamata nei prossimi mesi ad una nuova proroga del mandato autorizzativo dell’ISAF.

E’ inoltre possibile formulare una serie di opzioni alternative alla presenza militare, valorizzando la cooperazione civile, rimettendo in discussione la logica dei PRT (Provincial Reconstruction Team) concepiti dagli americani per fornire un lato “umano” e accettabile dalla popolazione, della presenza militare, facendo prevalere compiti di guida in attività civili di ricostruzione dello Stato. A questo proposito sarebbe utile un bilancio del settore che è stato affidato alla direzione degli italiani, ovvero la ricostruzione del sistema giudiziario, dato che alcune valutazioni di fonte americana sono decisamente critiche. Così come sarebbe valutare avere una valutazione indipendente dell’effettiva utilità del PRT di Herat a guida italiana, a fronte di possibili alternative di intervento interamente civili.

Non è affatto vero che l’Italia non abbia possibilità di iniziativa politica e di manovra, anche volendo confermare gli impegni assunti nelle sedi internazionali. Diversi paesi presenti in Afghanistan (Gran Bretagna, Francia, Germania) hanno posto condizioni e vincoli alla loro presenza che ha volte hanno gestito con scelte alternative a quelle degli Stati Uniti. E’ noto che il governo Zapatero nel momento in cui ha ritirato le truppe dall’Iraq, ha aumentato la presenza militare in Afghanistan. E’ meno noto che ha contestualmente interrotto ogni partecipazione anche simbolica all’Operazione Enduring Freedom, ritenendola illegittima. La partecipazione di altri Paesi, soprattutto di quelli più esposti militarmente (Canada, Olanda) potrebbe venire rimessa in discussione anche in tempi non lontani. Il parlamento canadese ha approvato l’invio di militari con solo quattro voti di scarto. In Olanda ci saranno le elezioni in autunno e, dato che il Partito Laburista è diviso e altri partiti sono contrari alla presenza militare compreso i liberali di Democrazia 66, non è detto che il governo che emergerà da voto non riveda la scelta compiuta all’inizio di quest’anno. In quasi tutti i Paesi il consenso dell’opinione pubblica all’intervento militare in Afghanistan sta scemando sensibilmente.

In conclusione vale la pena di accennare ad un ulteriore elemento di iniziativa che riguarda specificamente la sinistra pacifista e alternativa: la possibile costruzione di iniziative comuni sopranazionali. Non mi risulta che finora vi siano state prese di posizione comune dei partiti della sinistra alternativa, soprattutto di quelli in Paesi impegnati con proprie truppe, né dei suoi organismi collettivi (gruppo parlamentare europeo, Partito della Sinistra Europea). Eppure costruire una base politica comune e una iniziativa convergente in diverse sedi (comprese quelle di movimento) può essere importante anche per spostare l’orientamento di forze politiche e sociali significative, tra quelle oggi favorevoli all’intervento o incerte.

La situazione in tutta l’area che va dall’Egitto all’Afghanistan è in movimento. Ci sono segnali preoccupanti ma anche nuove possibilità che sarebbe opportuno cercare di cogliere con una iniziativa politica a tutto campo.

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