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Introduzione alla filosofia africana

Publie le lunedì 23 ottobre 2006 par Open-Publishing

Dazibao Arte e Cultura Africa Michele Bono

di Michele Bono

Il primo di una serie di articoli dedicati alla filosofia africana non può che partire dalla domanda che cos’è la filosofia africana? Per rispondere è necessario inserire la questione in un contesto storico preciso -quello dell’Africa colonizzata del XX secolo- ed orientarla concettualmente sullo sfondo del dibattito filosofico africano odierno.

Nonostante la complessità delle posizioni filosofico-politiche che contraddistinguono le diverse correnti interne alla filosofia africana, si possono individuare due fondamentali approcci ermeneutici al tentativo di rispondere alla domanda posta. Il primo identifica la filosofia africana con l’etnofilosofia, mentre il secondo -sulla scorta del filosofo ivoriano P.J. Hountondji- tende a concepirla come la produzione filosofica propria dei filosofi di origine africana.

L’etnofilosofia è una disciplina che lavora su materiale etnografico, cioè su un inventario di conoscenze primitive, al fine di ricostruire un sistema di pensiero filosofico precostituito, collettivo, inconscio ed immutabile. Etnofilosofia indica la visione del mondo dei popoli dotati di cultura orale: accettata unanimemente e inconsapevolmente, ne esprime le concezioni fondamentali della realtà e dei valori. È un patrimonio di saggezza tradizionale in cui si può riconoscere e ricostruire una struttura logica, ontologica e metafisica implicita. Per questi motivi merita l’appellativo di «filosofia», secondo il significato tipico di conoscenza degli oggetti ultimi del sapere: Dio, il cosmo, l’anima. Fonda la prassi come sistema di valori ed è quindi sapienza etica e tecnica.

Un precursore dell’etnofilosofia, a cui è riconosciuto oggi il ruolo di grande ispiratore, è Placide Tempels, missionario belga operante in Congo, che con il suo scritto Philosophie Bantoue, uscito nel 1945, apre la strada a questo nuovo standard filosofico. Tempels rifiuta il concetto di pre-logismo, coniato da Lévy-Bruhl, ed attribuisce alla popolazione bantu dei Ba-luba, presso cui operava, un pensiero filosofico proprio, a carattere ontologico, in cui rileva la presenza ancora viva di un’antica filosofia dell’umanità, come una originaria rivelazione divina comune a tutti i popoli.

Hountondji smaschera dietro questa operazione interpretativa delle tradizioni, giudicata una vera e propria elemosina intellettuale, l’ideologia mistificante del potere che mira ad impedire agli intellettuali africani, e a maggior ragione ai saggi della cultura orale, cosiddetti filosofi primitivi o semi-primitivi, di affrontare problemi d’interesse cruciale per le proprie popolazioni e di significato universale per i valori che trasmettono. Nel discorso etnofilosofico l’Africa, i popoli, i soggetti, non sono interlocutori, sono solo un argomento; coloro che dovrebbero essere i protagonisti sono esclusi dalla discussione: “Filosofia Bantu” è un mero pretesto per intavolare i soliti discorsi autoreferenziali tra europei.

Il nero continua ad essere un oggetto da definire, a cui è impensabile riconoscere il diritto elementare di affermare liberamente la propria identità. Rimane un argomento, una faccia priva di voce sottoposto a un esame, non il soggetto di un possibile discorso. Impacchettare la cultura africana per un uso esterno significa, secondo Hountondji, seguire la linea dell’etnocentrismo europeo.

Le conseguenze per l’Africa sono disastrose, perché se da un lato una mistificazione ideologica di questa portata è lo strumento del dominio dei regimi neo-colonialisti africani, i cui governatori vengono educati dagli europei ad una cultura ed una politica “filo-occidentali”, cooptati per il mantenimento di un controllo dittatoriale sulle popolazioni africane, dall’ altro è portatore di un’ idea di collettivismo la cui manifestazione diretta è la giustificazione di quel folclorismo mistificatore che alimenta in Occidente fenomeni come il turismo di massa a buon mercato, lo sfruttamento di materie prime e la dipendenza economico-scientifica.

In opposizione a questa non-filosofia, Hountondji apre il suo famoso saggio Sur la «philosophie africaine». Critique de l’ethnophilosophie, uscito in Francia nel 1976, con questa affermazione: “Per filosofia africana intendo un insieme di testi, e specificamente l’ insieme di testi scritti da africani e definiti filosofici dai loro stessi autori.” Le reazioni saranno molteplici e contrarie, ma il risultato unico: da quel momento in poi il filosofo ivoriano diventa un punto di riferimento essenziale del dibattito filosofico africano.

Questa manipolazione dell’identità che Hountondji denuncia ‘nella’ ed ‘attraverso’ l’ etnofilosofia, e che ritrova addirittura esaltata come africanità nel discorso populista dei suoi nuovi critici, nel persistere della complicità con gli oppressori occidentali, dietro l’apparenza rivoluzionaria, è l’ ideologia della dominazione di gruppo o, più precisamente, di una certa idea di gruppo imposta da un manipolo di intellettuali e retori, l’ ideologia che schiaccia gli individui.

Nella critica dell’unanimismo che riduce i soggetti a materiale umano, per controllare meglio l’Africa come deposito di immense ricchezze, è in gioco per i popoli la possibilità di trasformarsi, vincendo -attraverso un movimento autonomo di trascendenza- le debolezze multiple che hanno reso possibile la loro sconfitta nei confronti dell’ Occidente a un certo punto della storia. Questa lotta non oppone, come è stato sostenuto, i filosofi professionisti da una parte e le masse popolari dall’ altra, anche se prende piede per ora soprattutto fra gli intellettuali, ma ne investe proprio la responsabilità, tanto più che la diaspora e l’inculturazione forzata degli individui contrassegna la realtà attuale dell’Africa. Le scommesse politiche di questa lotta per la filosofia riguardano dunque essenzialmente la sua nuova identità, che solo può garantire un futuro alla sua libertà economica, politica, al suo stesso destino nella contemporaneità.

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