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La maglietta clandestina

Publie le giovedì 10 luglio 2008 par Open-Publishing

Dazibao Movimenti I "senza" - immigrati

di Pierluigi Sullo

Clandestino campagne

I simboli sono importanti, eccome. Quando se ne parla, mi torna sempre in mente una scritta scolorita dal tempo ma ancora leggibile che vidi sul muro di cinta di una antica villa della Val d’Orcia, in Toscana. Era tracciata con vernice rossa e pennello e diceva “Viva Mao”. Al di là di quel che, con senno di poi, si può dire della Rivoluzione culturale ecc., quel che fu per me quasi commovente era il fatto che fino in quell’angolo del paese, tra cipressi e crete rosse, un ragazzo, evidentemente sessantottino, aveva creduto giusto, utile, far sapere quale fosse il simbolo, il nome di Mao Tse-tung, che voleva scagliare contro l’ordine costituito.

Evento microscopico, ma a ben pensarci non molto diverso dalla radio con cui Peppino Impastato, assassinato quarant’anni fa, pensò di combattere la mafia. Oggi ci si attarda a “raccogliere le bandiere” e a tutelare le falci e i martelli, ma la verità è che di simboli efficaci non ne abbiamo gran che, noi – parola molto complicata e più vasta di quanto appaia – che ci sentiamo sulle spine se un campo rom viene incendiato, ci irritiamo se un manipolo di “forzanovisti” (così li chiama il loro duce, debitamente intervistato dalla tv) prende a mazzate un gruppo di studenti, ci allarmiamo se attorno alla questione dei rifiuti napoletani si costruisce un apparato legislativo degno, scrive Stefano Rodotà sulla Repubblica, di una “democrazia autoritaria” (Marco Revelli dice “dispotica”), ci sentiamo impotenti se un milione circa di persone, dette “clandestini”, viene indicato come la selvaggina nella caccia alla “sicurezza”.

E dunque, siccome il nostro mestiere è quello di comunicare, e anche di fabbricare simboli se ne siamo capaci, noi di Carta abbiamo pensato di proporne uno. Non sappiamo se funzionerà, se abbiamo la capacità e la forza di diffondere a sufficienza l’idea, ma chissà. Il ragionamento è questo: dobbiamo trovare una parola-simbolo che unifichi i comitati (proibiti per legge) di cittadini contro le discariche (ma domani toccherà a quelli contro la Tav o la base di Vicenza o il Ponte sullo Stretto); i migranti la cui stessa vita viene negata; i rom, che sono l’ultimo gradino della scala; i lavoratori in nero, molti dei quali stranieri sans papier, ecc. Insomma, dire: guardate che, fatte le debite differenze, alla fine è con tutti voi che i Maroni e i Berlusconi se la stanno prendendo. E qual è la parola che può simboleggiare tutto questo? Forse “clandestino”, ci siamo detti: nella storia molte di queste parole spregiative, cariche di negatività, sono state impugnate da chi le subiva e sfacciatamente esibite. E come auto-denunciare la propria condizione di “clandestino”? Con un mezzo di comunicazione classico: una maglietta.

Detto e fatto, ecco la maglietta che semplicemente dichiara “Clandestino”, con un tocco in più nel fatto che la “o” finale è sostituita da una impronta digitale. E la filiera, per così dire, è garantita. Le magliette sono realizzate in Bangladesh da una delle prime esperienze di manifattura etica: le operaie hanno condizioni lavorative e salariali molto migliori della media nazionale e assistenza sanitaria garantita e sono importate da altraQualità, una delle più importanti centrali di commercio equo italiane; a stampare gli artigiani di Arte’ Grafica di Asti [www.promotus.it]: del prezzo finale (12 euro, compresa la spedizione) una certa percentuale va al progetto della “sartoria rom”, avviato nel campo rom di Quintiliani, periferia romana. A Carta vanno meno di due euro, giusto la fatica che ci mettiamo. Potete richiederla, potete indossarla in giro, visto che l’estate sarà caldissima, e potete anche rivenderla in botteghe, librerie, ecc. Se volete, potete guardare il sito bottega.carta.org, oppure scrivere a bottega JYe carta.org o ancora telefonare allo 0645495659.

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