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La vendetta come augurio (Elogio della vendetta)

par Antonio Recanatini

Publie le martedì 21 marzo 2017 par Antonio Recanatini - Open-Publishing

Vendetta, dal latino vindĭcta. Il tracciato etimologico di questo termine è molto articolato, comprende vari processi linguistici, anche provenienti dal rumeno vindeca, guarire, sanare. Dapprima vindeca era sinonimo di liberazione, di protezione, più vicino all’addizionale greca di giustizia, diké. Se potessi perderei giornate intere dietro l’etimologia di un termine, perché credo che l’espressione linguistica sia l’unico alleato, per chi cerca la matrice, la fonte dell’accezione negativa di ogni parola e conseguente risvolto storico.
La vendetta è la risposta a un rancore, a un torto subito. E’ un danno da infliggere per pareggiare i conti, contro chi, un tempo, ci offese. Molti scrittori, filosofi, poeti e pensatori, da Tertulliano a Borel, da de Cervantes a Bacon, hanno classificato la vendetta come un male assoluto o, semplicemente, come odio da liquidare con l’indifferenza e la dimenticanza, per dirla alla Borghes.
Il dibattito è ancora aperto, finanche Gramellini si è schierato, definendo la vendetta una pulsione orribile. Sicuramente, il perdono avrà sempre molti seguaci in frack. La vendetta no, perché il frack non contiene il nervo teso. Il perdono come salvezza vive nella pudica disonestà personale, nel contesto sociale che ci ostiniamo a difendere, pur di salvaguardare le apparenze, il buon aspetto, il buon senso.
Di certo, non uscirà da me la formula perfetta per elogiare la vendetta, ma quel che è discutibile va sottolineato e confrontato, perché, bigottismo a parte, la vendetta è tra le passioni più gratificanti per la mente. Mi spiace, per quanto possa farvi schifo, essa soddisfa l’uomo e la donna nella sua veste più trasparente, più cruda; sia nel corpo, sia nell’anima. Se cancellassimo la vendetta dai testi scritti, buona parte della letteratura, del teatro e del cinema rimarrebbe orfana di lettori e spettatori, perché orfana di idee. La stessa storia dell’uomo è animata dal desiderio di vendetta, quella che muove le grandi rivoluzioni e alterna il grigiore di una vita in coda a una da protagonista. Il perbenismo ostentato da chi non prova rancore, è molto più sgradevole di chi, a ragion dovuta, racconta con orgoglio la sua vendetta con il mondo, con il nemico.
La vendetta guarda in alto, è nei sogni dello schiavo, nel desiderio dei sottomessi, nella rovina dei migliori. La vendetta è proletaria a priori.
Il sistema non cambierà, sostituendo nomi o invertendo l’ordine dei fattori. La democrazia difende i diritti dei benestanti e assorbe le magagne dei disonesti, ma non sarà mai in grado di sostituire il sistema nel profondo. Troppo fragile e troppo scontata questa democrazia di facciata, sporca e infangata nell’intimo, che snatura il bisogno di vendetta e cede al compromesso.
Non sarò il primo a dirlo, nemmeno l’ultimo: la storia si vendica, non si perdona; altrimenti sarebbe più onesto ammainare la bandiera rossa, scendere dal palco e sotterrare il desiderio di rivalsa per pareggiare il conto con la vita e con l’alta borghesia. Il mio elogio alla vendetta parte dal rispetto profondo che provo per la rabbia dell’uomo di strada, dell’uomo derubato, dell’uomo qualunque. Abbiate a cuore la vendetta, perché in essa risiede la forza e il coraggio indispensabili per ribaltare il sistema.
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