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Intervista a Giuliano Giuliani : i giorni che la politica ha dimenticato

Publie le lunedì 18 luglio 2005 par Open-Publishing

Dazibao Movimenti G8 Storia

di Oreste Pivetta

Quattro anni da quel 2001, luglio caldo come questo, luglio in quei giorni di Genova di reti, sbarre, cancellate altissime, di container usati come una muraglia, di tombini saldati, in una città divisa e sequestrata, di là i grandi della terra, di qua la gente come noi, in mezzo poliziotti, carabinieri, finanzieri rivestiti alla maniera di guerrieri, robocop in mostra di muscoli, bastoni, aggeggi di protezione. Persino i cavalli, in attesa nel deserto di corso XX Settembre, erano stati addobbati come macchine da guerra. Sono giorni che non si ricordano per le decisioni dei grandi, da Bush a Berlusconi, sul debito dei paesi poveri, sulle regole del commercio mondiale o sullo spreco delle risorse ambientali.

Il G8 genovese fu un colossale spettacolo di potenza, che consegnò alla cronaca e alla storia lacrimogeni, jeep blindate, provocazioni, pestaggi nei commissariati, cortei di migliaia e migliaia di giovani aggrediti come un nemico in marcia e un giovane morto, Carlo Giuliani, ucciso e offeso in piazza Alimonda. Era piccolo, magro, fragile in canottiera. Il pomeriggio del 20 luglio, si trovò ad un angolo della piazza, tra le aiuole e la scalinata della chiesa, mentre le «forze dell’ordine» si davano alla carica, incitandosi.

Heidi e Giuliano Giuliani, nell’anniversario della morte del figlio, lavorano a poche decine di metri da piazza Alimonda, nelle sale del Teatro della Corte, per una mostra, ideata da Heidi, che si aprirà martedì con un dibattito intitolato «Che Resistenza!» e si chiuderà sabato con un altro dibattito intitolato «Che Resistenza?». La differenza sta in un punto esclamativo e in un altro punto, interrogativo, però. Da un punto all’altro passano il valore di quell’esperienza storica e l’attacco alle sue conquiste, tra revisioni, alterazioni della verità, presunte riforme istituzionali.

Giuliano Giuliani racconta che in mostra si sentiranno cinquanta voci diverse leggere altrettanti articoli della Costituzione: «Le voci sono le nostre, ma sono anche quelle di persone che abbiamo incontrato qui, davanti al teatro, e che con entusiasmo sono entrate per partecipare alla registrazione». Poi, riflettendo su quel punto interrogativo, gli viene di ricordare l’ultima promozione tra la polizia, quella di Vincenzo Canterini, il poliziotto rinviato a giudizio per concorso nei reati di falso ideologico, calunnia e lesioni personali aggravate per i fatti avvenuti la notte tra il 21 e il 22 luglio 2001, nelle scuole Diaz-Pertini.

Una notte che non si dimentica: duecento agenti di polizia in larga parte proprio alle dipendenze di Canterini, all’epoca comandante del Reparto mobile di Roma, entrarono e malmenarono persone che dormivano. Molte vennero arrestate, ma le prove erano state «costruite», manipolate, come accertò la magistratura. Vera era stata la devastazione della scuola, vero il sangue alle pareti, sulle canne dei caloriferi, come le ciocche di capelli strappate dalla testa di qualche ragazza che cercava una via di scampo per le scale. Canterini si considerava un «capro espiatorio», scaricato dai suoi capi, al punto da invocare quella Commissione parlamentare d’inchiesta sul G8 che, sottoscritta da oltre un decimo dei senatori, non è mai stata posta ai voti. «Un brutto segno la promozione - dice Giuliano Giuliani - tanto brutto che si sono udite es+pressioni di dissenso persino dall’interno della polizia».

A riviverli oggi, sembra che quei giorni terribili abbiano segnato un punto di svolta, non solo per le nostre vicende personali, ma in una storia universale. Una catena da Genova in poi: le Torri gemelle, l’Afghanistan, la guerra in Iraq, gli attentati a Madrid, a Bali, in Turchia, adesso le bombe a Londra. Come se Genova fosse stata chiamata a inaugurare il cupo esordio del terzo millennio, proprio mentre il popolo di Genova rivendicava più giustizia, più diritti.

«È andata così, mentre il popolo di Genova indicava un principio molto semplice: dove si va se non si cancellano tante ragioni di ingiustizia e di sofferenza, se non si ridà la speranza ai più disperati della terra. Ripeterò un ragionamento che alcuni considerano semplicistico, ma a me pare dirimente: la guerra alimenta il terrorismo, la guerra non elimina povertà e ingiustizia, lascia invece a ogni disperato la sua disperazione, una disperazione che può alimentarsi di fede religiosa, che può crescere di fondamentalismo. Che condanniamo. Ma non possiamo chiudere gli occhi di fronte all’ingiustizia. I grandi hanno fatto qualche passo avanti in quella che noi pensiamo essere una fondamentale battaglia di giustizia? Non mi pare. E come agiscono allora contro il terrorismo? Attrezzando meglio la polizia? Con una intelligence meno stupida? Non credo sia questa la via».

Stiamo in Italia, facciamo fatica a tirare la fine del mese, ma tra noi e il Darfur c’è di mezzo una infinità di chilometri e di benessere. Eppure dobbiamo fare i conti con la nostra nazionale decadenza...

«Che ha tanti volti. Ho letto una notizia di due Nocs, agenti speciali, che stavano progettando il sequestro di un imprenditore. Una scena di corrutela di fronte alla corrutela della società... Una piccola istantanea, che ti lascia però temere altre scene più inquietanti, ad esempio la scena di qualche pezzetto di terrorismo costruito in casa».

Basterebbe rileggersi qualche pagina di piazza Fontana... Ancora Genova però. Tra le memorie di quel luglio ci sono anche i commenti di Giuliano Ferrara, che definì quei giovani in corteo figli viziati della borghesia ricca oppure sottoproletari ai margini...

«Mi sembra una delle tante sciocchezze sentite in giro. Invece in quei giovani ho scoperto la generosità. Generosità che li distingue dai giovani di altre lotte e di altre generazioni. Pensiamo al Sessantotto: scendevano in piazza per rivendicare per se stessi diritti e giustizia. Questi altri, il popolo di Seattle o di Genova, chiedono cose che non toccano il loro immediato interesse. Pretendono qualche cosa per gli affamati del Darfur o per i contadini sfruttati e repressi del Messico».

Sarà così. Tuttavia si ha la sensazione che il movimento che sfilò a Genova conosca la stanchezza.

«Si è accennato, con una espressione un po’ abusata, ai fenomeni carsici. In strada di gente ne vedi meno. Anche perchè quei giovani non hanno la cultura della militanza, che era nostra all’epoca dei nostri vent’anni. Ci sentivamo in servizio permanente effettivo, all’interno di una organizzazione. Sono ragazzi più liberi, aperti, capaci di lavorare come pazzi per un progetto e poi partire alla scoperta di altre realtà. Sono anche giovani delusi dalla politica, una politica che fa il balletto attorno al nome di un candidato e che non riesce a presentare obiettivi, idee, esempi. Dopo il referendum recente, in tv, Blob ha mandato in onda più volte l’immagine di una persona grandissima, Enrico Berlinguer. Erano istantanee di un’altra campagna referendaria, quella per il divorzio. Berlinguer aveva sconfitto la chiesa di Siri, che era un po’ peggio di quella di Ruini, e la Dc di Fanfani, che era ben altra potenza rispetto ai vari Udc, Forza Italia... Perchè c’era riuscito? Perchè con il suo esempio mi aveva motivato al punto che avevo scalato l’Everest mettendo assieme i gradini e i piani saliti per distribuire volantini, per discutere con tutti. Stavolta non ho ripetuto la scalata e non solo perchè ho qualche anno in più».

Ci sarebbe da dire che quella vittoria giunse in un paese assai diverso, che vantava slancio, risorse, volontà...

«Qualche responsabilità è anche nostra».

C’è un’altra critica rivolta a ciò che resta del popolo di Seattle e di Genova: scarsa capacità di proposta.

«L’elaborazione attorno a certi temi, come quello relativo ai debiti dei paesi poveri o l’altro relativo ai beni comuni (acqua e aria) o l’altro ancora per i farmaci, è andata avanti. Il limite vero sta dall’altra parte, dalla faccia che mostra la politica».

Sei stato militante del Pci e poi sindacalista. Come vivi quest’altra prova?

«Ci sono sentimenti che rappresentano un carico enorme. Però ci sono questi giovani che mi hanno aiutato. Mi sono avvicinato alle questioni concrete. Per la prima volta dopo tante generazioni i figli stanno peggio dei padri, sentono tante garanzie venire meno, hanno paura. Ho scoperto però che questi figli hanno molto da insegnare ai padri».

Ti hanno tolto una vita. Quei giovani ti hanno forse restituito qualcosa di un’altra vita.

«Credo sia così».

http://www.unita.it/index.asp?SEZIO...