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Ancora su guerra e terrorismo

Publie le lunedì 26 gennaio 2004 par Open-Publishing

Forum Sociale Marco Bersani

La splendida festa di popolo che e’ stato il Forum di Mumbay si e’ concluso
da alcuni giorni e ho avuto cosi’ il tempo di leggere con piu’ calma parte
del dibattito che l’articolo scritto da me, Bernocchi, Cannavo’ e Casarini
ha suscitato.
Devo dire che le reazioni prodotte tanto dall’articolo quanto dal mio successivo
messaggio di chiarimento, mi confermano come la discussione collettiva su
argomenti come guerra\terrorismo o violenza\non violenza sia ancora insufficiente
dal punto di vista dell’analisi politica, perche’ viziata dalla prevalenza
di un approccio di tipo etico (necessario ma non sufficiente) che consequenzialmente
prevede la necessita’ di schieramento e di appartenenza.

Proprio perche’ credo sia da tutti comunemente condiviso come non sia in
campo, ne’ ora ne’ mai, alcuna ipotesi di militarizzazione del movimento
italiano ed europeo e che nessuno abbia in mente l’abbandono delle pratiche
di lotta condivise da tutto il movimento sin dalle giornate di Genova, ovvero
azioni pacifiche, nonviolente e di disobbedienza civile, credo che dovremmo
permetterci una discussione franca e aperta, consapevoli del fatto che ogni
volta che abbiamo affrontato un problema in questi termini ne abbiamo ricavato
sintesi piu’ avanzate e nuovi orientamenti all’azione.
Intervengo quindi un’altra volta, sia perche’ ora posso farlo con il tempo
e le energie adeguate per esprimermi in un senso piu’ compiuto, sia per
contribuire ad una discussione che dovra’ essere lunga e articolata per
divenire fertile.

Nel dibattito in corso, credo anche occorra tener conto dei diversi temi
che nella discussione si sono inevitabilmente intrecciati, rischiando a
volte di far cortocircuitare la riflessione : c’e’ una questione legata
a guerra e terrorismo e ai suoi riflessi sui movimenti, c’e’ una questione
legata alla rivisitazione del ’900 e ai suoi riflessi sulle strategie legate
al rapporto tra potere e democrazia, e c’e’ una riflessione che riguarda
le pratiche di lotta nelle diverse situazioni di conflitto nel mondo (Iraq
in particolare, ma non solo).
Provo ad intervenire per punti.

GUERRA E TERRORISMO.
L’articolo a quattro mani diceva sostanzialmente come
l’assunzione della categoria analitica "Il Terrorismo" come soggetto unico
in se’ compiuto a livello mondiale, contrapposto alla guerra permanente,
ma con questa autoalimentantesi, fosse sbagliata. Ho gia’ ribadito perche’
ritengo che cio’ sia vero, ma vorrei articolarlo ulteriormente. L’esistenza
de "Il Terrorismo" come soggetto unico mondiale in se’ compiuto e’ parte
integrante dell’attuale fase della strategia di guerra permanente teorizzata
dai neo-cons americani, con tre precise funzioni :

a) la possibilita’ di
risolvere con l’aggressione militare l’accapparramento delle materie prime
fossili residue sul pianeta e garantirsi attraverso il controllo dell’energia
il mantenimento del dominio mondiale;

b) la possibilita’ di usare questa
categoria per eliminare l’insieme delle conflittualita’ e dei movimenti
di lotta ormai presenti a livello mondiale (Mumbay ne e’ un’ulteriore positiva
conferma); la possibilita’ di ridurre, attraverso la politica della sicurezza,
i diritti individuali di ciascun abitante del pianeta.
Non dimentichiamoci, tra gli effetti, la direttiva europea che dovra’ essere
ratificata dal governo italiano e che prevede come ascrivibili al terrorismo
praticamente tutte le forme di conflittualita’ sociale (fino ai blocchi
stradali e all’occupazione delle scuole).
Contrastare questa posizione e’ possibile solo rompendo il paradigma, invece
di assumerne una parte (l’esistenza de "Il terrorismo" come soggetto unico,
mondiale e in se’ compiuto) come elemento per contrastare l’altra (la guerra
permanente). Perche’ nel secondo caso, il rischio che si corre e’ quello
del progressivo ammutolimento del movimento di fronte alle situazioni drammatiche
e tragiche che quotidianamente si presentano.

L’ho gia’ detto, ma vale la pena ripeterlo: il balbettio del movimento nel
mobilitarsi per chiedere l’immediato ritiro delle truppe dall’Iraq dopo
Nassirya aveva questa portata : perche’ se il Governo Berlusconi dice che
quel tragico atto e’ parte dell’azione de "Il Terrorismo" e noi abbiamo
accettato culturalmente una parte del paradigma (l’esistenza de "Il terrorismo"
come soggetto unico, mondiale e in se’ compiuto),
diventa difficile definire Nassirya un legittimo, per quanto tragico, atto
di resistenza all’occupante e dunque mobilitare per la fine dell’occupazione.
Non solo. L’accettazione del paradigma comporta la difficolta’ ad intervenire
adeguatamente sull’enfatizzazione ideologica che il Governo italiano, e
non
solo, pone sul problema della sicurezza, e su come questo andra’ sempre
piu’
ad intrecciarsi con le lotte sociali in corso.

Dico di piu’. Se dovesse accadere (speriamo vivamente di no) un attentato
in Italia, io credo che il movimento si troverebbe in grande difficolta’
a prendere la parola e la piazza per esprimersi contro la guerra globale.
E se anche
accadesse, sarebbe poco comprensibile per i cittadini, dopo mesi di esplicito
utilizzo del paradigma da parte del Governo e dopo mesi di accettazione
parziale del paradigma da parte del movimento, di fronte all’evidenza dell’accaduto
(tutti ci dicono che esiste "Il terrorismo" come soggetto unico mondiale
in se’ compiuto, e oggi ha colpito il nostro Paese).
Non esiste dunque il terrorismo ? Non esiste come definito nel paradigma.
Esistono gruppi, apparati e servizi segreti che di volta in volta, attraverso
atti terroristici, cercano di modificare a proprio vantaggio una situazione.
Occorre dunque di volta in volta capire e denunciare gli atti terroristici
e gli interessi che coprono, sia per il grado di sofferenza che provocano
nelle popolazioni colpite, sia per le speranze di liberta’ che vanno a comprimere.

Occorre dunque abbandonare l’accettazione parziale del paradigma e accedere
alla complessita’ e anche alla tragicita’ della storia quotidiana.
Ne guadagnerebbero la riflessione politica e l’orientamento all’azione.
E soprattutto l’agibilita’ del movimento.

L’IRAQ PER ESEMPIO

Ho gia’ detto di come l’accettazione parziale del paradigma abbia comportato
il balbettio del movimento dopo i fatti di Nassirya. Ma il paradigma, proprio
perche’ assolutizzante, comporta la sua inevitabile estensione. Quanti convegni
ha prodotto il movimento per conoscere e capire quale sia l’attuale situazione
in Iraq? Direi nessuno. Ma nel frattempo, si diffonde, aldila’ delle intenzioni
soggettive, l’idea che in Iraq sia in atto (scusate la semplificazione)
un grande e tragico confronto
tra la guerra e il terrorismo. Nulla di piu’ e nulla di meno.

Quali conseguenze comporta questo per il movimento? Le stesse, ovvero il
deficit dell’analisi politica e l’immobilismo dell’azione. Logico che, se
prevale la fisiologica estensione dell’accettazione parziale del paradigma,
ci siano addirittura parti del movimento che arrivino a non pensare come
necessario l’immediato ritiro delle truppe occupanti ( se l’Iraq e’ lo scontro
tra guerra e terrorismo, non possiamo lasciare solo il popolo irakeno che
ne e’ la vittima).

Se abbandonassimo il paradigma, allora scopriremmo come la realta’ in Iraq
sia complessa e questo aiuterebbe la parola e l’azione dei movimenti.
Scopriremmo che in Iraq e’ in atto una occupazione militare che per strategia
e posizione geopolitica attira interessi disparati, e che attualmente in
campo vi sono (scusate ancora la semplificazione) : una resistenza popolare
diffusa,
una resistenza armata, gruppi terroristici al soldo di servizi di paesi
confinanti e di grandi potenze.
Questo allora ci permetterebbe di conoscere e denunciare gli atti terroristici
e gli interessi che coprono contro il popolo irakeno. E ci permetterebbe
di solidarizzare con la resistenza popolare e armata (riconosciuta come
diritto anche dall’ONU), come possibile base per un futuro democratico dell’Iraq.

Dovremmo senz’altro approfondire i rapporti tra la resistenza popolare e
quella armata, perche’ dalla qualita’ di quei rapporti si potrebbero trarre
considerazioni sulla qualita’ del futuro processo democratico irakeno. Ma
mi piacerebbe non dimenticassimo mai che senza l’insieme della resistenza
irakena, oggi
quasi sicuramente tutti noi saremmo in piazza per cercare di fermare la
guerra alla Siria e via dicendo.
E sapremmo infine dire quale solidarieta’ di base e’ possibile e quale intervento
internazionale, se richiesto, e’ necessario (ovviamente, via le truppe subito
e nessuna potenza occupante nell’intervento internazionale).

IL ’900 RIVISITATO

Che il ’900 debba essere criticamente rivisitato e’ fuor di dubbio. In particolare,
la concezione dell’automatismo per cui il cambiamento rivoluzionario avviene
per la presa di coscienza di un unico soggetto motore, la classe operaia,
che tramite il ruolo guida del partito e la costruzione dell’esercito popolare,
prende il palazzo d’inverno ( anche stavolta scusate l’estrema semplificazione)
credo oggi
necessiti di importanti riflessioni.
Dire tuttavia che la lotta di liberazione del Vietnam, perche’ armata, abbia
costitutivamente prodotto il successivo autoritarismo e la burocratizzazione,
ovvero tutti gli elementi della degenarazione seguente appare un salto teorico
difficilmente comprensibile.
Porto un solo esempio di confutazione : il Nicaragua sandinista, nato da
una lunga lotta di guerriglia e che ha prodotto, prima di essere sconfitto
dall’aggressione economica e militare USA, un decennio di democrazia popolare
per molti versi anticipatoria di tante sperimentazioni oggi proposte dai
movimenti.
Voglio dunque dire che l’automatismo iniziale e’ dunque valido tuttora?

Certo che no. Anche nel Nicaragua sandinista sono avvenute le degenerazioni
di cui sopra, ma credo abbiano piu’ a che fare con il tipico processo novecentesco
sopra schematizzato, ed in particolare con il cosiddetto ruolo del partito
guida, e su cosa questo comporta in termini di rapporto tra gestione del
potere e democrazia.
Voglio quindi dire che il processo di cambiamento passa ancora oggi attraverso
la lotta armata di popolo? La storia insegna che si danno per ciascuna
situazione forme diverse di tentativi di riappropriazione collettiva della
liberta’, e che oggi i movimenti popolari hanno trovato altre strade per
mettere in campo situazioni di sperimentazione possibile. Ma ogni percorso
non va assolutizzato, perche’ sono le condizioni concrete (per esempio gli
spazi che consente l’avversario) a determinare le condizioni in cui un processo
di liberazione possa esplicitarsi.
Credo sia necessaria una riflessione sul potere e la democrazia che ancora
come movimenti dovremmo fare, per capire insieme cosa significhi costruire
autogestione democratica dal basso, destrutturazione del potere da subito
e come questo si possa confrontare con chi il potere lo detiene e non intende
redistribuirlo costi quel che costi.

INFINE, SU VIOLENZA E NON VIOLENZA

La violenza cambia chi la utilizza, perche’ inevitabilmente comporta la
mimesi dell’avversario, che della violenza fa parte costitutiva della propria
politica di dominio quotidiano. L’uso della violenza e i suoi effetti sono
parte di una contraddizione che gli uomini e le donne si portano dentro
da quando e’ cominciata sul pianeta una narrazione collettiva. E’ bene che
su questa questione, il movimento abbia fatto diverse riflessioni, fino
ad adottare collettivamente delle pratiche riconosciute e condivise, che
si sforzano (non sempre riuscendovi) di produrre altro dall’avversario.
Credo che il superamento dell’eterogenesi dei mezzi e dei fini sia una delle
acquisizioni piu’ importanti di questi anni. Non c’ e’ separazione di mezzi
e fini che possa produrre reale cambiamento e che non comporti una perdita
di umanita’ in chi la produce. Su questo, come ho gia’ detto, l’articolo
scritto a quattro mani non era sufficientemente chiaro.
Il problema tuttavia e’ di duplice natura : cosi’ come il fine non giustifica
i mezzi, altrettanto il mezzo non puo’ divenire il fine "tout court". Il
mezzo deve far intravedere il fine, deve dunque essere comunicabile e produrre
consenso e aggregazione, senza sovrapporsi totalmente al punto di assolutizzarsi.
Provo con alcuni esempi a farmi capire.

Se assolutizzassimo il mezzo, cosi’ come specularmente in passato si assolutizzava
il fine, noi non potremmo neppure spiegare perche’ durante il massacro preordinato
dei giorni di Genova, migliaia di noi ad un certo punto e per difendere
se stessi e gli altri hanno reagito alla violenza delle forze dell’ordine.
Voglio dire che Carlo non e’ "piu’ nostro" perche’ in quel drammatico giorno
aveva in mano un estintore, ma non diventa altrettanto "meno nostro" per
lo stesso motivo.
Carlo e’ nostro e del mondo perche’ voleva cio’ che vogliamo noi e lo voleva
senza prefigurare ideologicamente l’uso della violenza, anche se si e’ trovato
in circostanze che lo hanno costretto a tentare una difesa personale e collettiva.

Con lui migliaia di altri, che non l’hanno voluto prima e difatti non l’hanno
praticata dopo, successivamente e in diverse circostanze.
Provo a fare un altro esempio. La vittoriosa lotta del popolo boliviano
contro la privatizzazione del gas naturale ha costruito partecipazione popolare,
mobilitazione di massa, scioperi, blocchi stradali e solidarieta’.
Ad un certo punto della lotta, i minatori boliviani hanno messo la dinamite
nei pozzi come forma di pressione. Quella lotta che tutti abbiamo appoggiato
non e’ "piu’ nostra" perche’ ad un certo punto e’ stata utilizzata questa
forma di pressione, ma non diventa "meno nostra" per lo stesso motivo.
Se invece io assolutizzo il mezzo, dovrei interrompere l’appoggio e la solidarieta’.
Credo che il fine debba essere sempre l’apertura di spazi di liberta’ e
di partecipazione democratica alle mobilitazioni e che i mezzi siano quelli
che in ogni situazione data prefigurano quel fine, ossia siano comunicabili
e producano consenso e aggregazione.
Senza assolutizzazioni, ma con la grande attenzione che la drammaticita’
di ogni situazione richiede e che la speranza di costruire donne e uomini
nuovi necessita.

Grazie per l’attenzione