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Da Vicenza a Roma: chi rappresenta il movimento per la pace?

Publie le lunedì 19 marzo 2007 par Open-Publishing
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Dazibao Manifestazioni-azioni Movimenti Franco Ferrari

di Franco Ferrari

Domenica scorsa 17 marzo si è tenuta una manifestazione promossa da un ampio schieramento di forze che si vanno definendo come opposizione di sinistra al governo Prodi. Come sempre i dati sulla partecipazione sono controversi. Da un dato massimo di 30.000 fornito dagli organizzatori, a una valutazione che varia dai 10 ai 20.000 di altri osservatori. Dalle foto della manifestazione disponibili su Internet, sembra ragionevole ritenere che la presenza effettiva si avvicina alle stime più prudenti. Ma assumiamo comunque una partecipazione di circa 20.000 persone.

Se confrontiamo questa manifestazione con quella di Vicenza, dove chi era presente ha potuto assistere ad un reale appuntamento di popolo che andava ben al di là della somma dei militanti organizzati dalle diverse sigle, è ragionevole pensare che a Roma non rappresentasse più di un decimo di quella forza.

La manifestazione del 17 marzo a Roma si presentava come un appuntamento in cui ai temi specifici del ritiro delle truppe dall’Afghanistan e del rifiuto del raddoppio della base USA a Vicenza, si univi una esplicita condanna de governo Prodi ed una forte polemica con la sinistra alternativa, in particolare Rifondazione Comunista. Presenti quindi quasi tutte le sigle che oggi si collocano nello spazio politico dell’estrema sinistra (“Sinistra Critica”, PCL di Ferrando, Rete dei Comunisti) più qualche gruppo meno difficilmente classificabile come gli arancioni del “movimento umanista” e soprattutto le principali organizzazioni del sindacalismo di base, in particolare i Cobas di Bernocchi che sempre più si configurano come movimento politico a tutto campo.

Il confronto tra le due manifestazioni (Vicenza o Roma), per la differenza nei numeri e nel contenuto politico, sollecita due ordini di riflessioni, sul rapporto tra movimenti e rappresentanza politica e sulla strategia dell’estrema sinistra che cerca oggi di riproporsi autonomamente come punto di riferimento per alcuni pezzi di società.

Il movimento per la pace può essere rinchiuso e subordinato ad una strategia di opposizione politica promossa da gruppi minoritari? A me pare di no. Si è parlato molto in questi mesi, a volte anche a sproposito, di “sindrome del governo amico”. Questa formula, che rischia anch’essa di logorarsi per l’abuso, indica che i movimenti che abbiano una reale base popolare non posso essere subordinati ad una mera logica di schieramento politico. E’ bene quindi che restino in campo per il raggiungimento degli obbiettivi che si sono posti (siano essi l’affermazione coerente di una politica di pace, la drastica riduzione della precarietà de lavoro, il riconoscimento delle unioni di fatto, ecc.) senza assumere un atteggiamento di delega acritica al governo, anche se questo vede al suo interno forze che a questi movimenti hanno contribuito in grande misura.

Non bisogna nascondersi, e la manifestazione di Roma lo dimostra, che esiste anche un speculare “sindrome del governo nemico”, ovvero una strategia che subordina gli obbiettivi concreti dei movimenti alla formazione di uno spazio politico di opposizione al governo. Questo atteggiamento, non nuovo nelle correnti di estrema sinistra, esprime una incomprensione profonda della natura dei movimenti di massa. Essi sono per natura eterogenei, uniscono opzioni politiche differenti e convergono attorno ad alcuni obbiettivi. Ingabbiarli dentro una strategia tutta politica, per di più minoritaria, significa disperderne la ricchezza. Non è un caso che la manifestazione di Roma del 17 marzo così “politicamente corretta” dal punto di vista degli organizzatori, non esca dal recinto delle forze che l’hanno promosso.

Il secondo errore politico dell’estrema sinistra è quello di pensare che i movimenti di lotta possano e debbano essere rappresentati solo dall’opposizione. In realtà le grandi mobilitazioni a base popolare si pongono sempre sul terreno dell’acquisizione di risultati concreti, seppure parziali e percepiscono che questi risultati dipendono anche necessariamente dall’orientamento delle forze di governo. Ciò vale tanto più per quelle realtà che si confrontano direttamente, nel bene e nel male, con il governo nazionale o locale (come accade per i vari movimenti locali “No TAV, “No dal Molin” o per il ritiro dall’Afghanistan) anziché sul terreno strettamente sociale e di classe, come le mobilitazioni di carattere più strettamente sindacali.

L’estrema sinistra, partendo da questi due errori, tende poi ad autoproclamarsi rappresentante di questi movimenti senza che esista in realtà alcuna verifica empirica minimamente democratica di questo legame. I senatori cosiddetti dissidenti Rossi e Turigliatto si sono proclamati portavoce in Parlamento dei 200.000 di Vicenza, quando al più potrebbero considerarsi rappresentativi (fino a prova politica contraria) dei 20.000 di Roma, cioè di un quota assai modesta di tutti coloro che a partire dalla grande manifestazione di Firenze del Forum Sociale Europeo hanno dato anima e corpo al movimento pacifista reale.

Ora la strategia di questi gruppi – valga per tutti il partito/non-partito di “Sinistra Critica” – è di rappresentare politicamente l’opposizione sociale. Questa opposizione, si ritiene crescerà e avrà bisogno di una voce politica, e questa voce, data la scelta di governo di Rifondazione Comunista, fortemente presente nei movimenti soprattutto a partire da Genova 2001, non potrà essere che un “nuovo soggetto politico” che si formerà attorno a “Sinistra Critica”.

Questa lettura unidimensionale e semplicistica del rapporto movimenti-soggetti politici, può essere criticata da vari punti di vista. Lo facciamo prendendo come punto di partenza un articolo di … Franco Turigliatto (lo stesso, non un omonimo) del lontano 1979, pubblicato dalla rivista della Quarta Internazionale, “Critica comunista” e intitolato “I mille volti dell’opposizione operaia”. Prendendo in esame questa parola d’ordine condivisa a quel tempo da quasi tutti i gruppi dell’estrema sinistra, in una fase in cui il PCI era ancora impantanato nelle ultime fasi dell’esperienza dell’unità nazionale (sostegno esterno a governi democristiani) il Turigliatto versione 1979 criticava fermamente quella che definiva come la “mitologia” della “opposizione operaia”. Fra altre considerazioni più legate alla contingenza, due erano le critiche alla base del ragionamento dell’esponente della Quarta Internazionale: 1) che questa parole d’ordine partisse da una analisi semplicistica delle “forze riformiste” (si intendeva allora il PCI), e 2) che non ponesse ai movimenti il tema dello sbocco di potere e di governo. Sagge considerazioni che il Turigliatto del ’79 potrebbe rivolgere al Turigliatto del 2007, con qualche necessario aggiornamento linguistico.

L’opposizione sociale sulla quale scommette oggi “Sinistra Critica” assomiglia ad una goccia d’acqua all’”opposizione operaia” dei principali gruppi dell’estrema sinistra della fine degli anni ’70, con la stessa visione semplicistica e settaria del PRC e la stessa incomprensione del rapporto movimenti-governo.

La politica di Rifondazione Comunista scommette sul fatto che, pur tra difficoltà e contraddizioni, i movimenti possano e debbano “contaminare” anche la politica del governo. Senza pensare che di per sé il governo possa sciogliere tutti i nodi, ma che quantomeno possa spostare in avanti il terreno del conflitto nel quale i movimenti si muovono. E’ una strategia che potrebbe anche non avere successo, naturalmente, se prevalessero le componenti moderate e neocentriste della coalizione di centro-sinistra. Ma è un terreno di confronto che non può essere disertato, pena vanificare ciò che di nuovo alcuni grandi movimenti di lotta emersi a partire dal 2001 hanno portato nella società italiana.

All’opposto, l’impostazione di “Sinistra Critica” suppone di alimentarsi dalla sconfitta di quegli stessi movimenti, dalla loro incapacità di incidere sulle scelte di governo. Questa prospettiva si basa su uno schema ideologico, periodicamente reiterato e praticamente mai realizzatosi nella storia, secondo cui questa sconfitta determinerebbe il loro radicalizzarsi e il loro catartico riconoscersi in un soggetto politico espressione di un anticapitalismo tanto “incontaminato” quanto astratto.

Con l’assemblea nazionale dell’autunno scorso “Sinistra Critica” ha avviato quella che Salvatore Cannavò ha definito, in un articolo su International Viewpoint, mesi prima della recente esclusione di Turigliatto dal PRC, come una “strategia d’uscita” da Rifondazione Comunista. Le basi del nuovo soggetto politico derivante da questa “exit strategy” – come abbiamo cercato di dimostrare con le nostre considerazioni - appaiono al momento molto fragili e fondate su cruciali errori di analisi e di prospettiva.

Messaggi

  • Quelli che tu chiami "più qualche gruppo meno difficilmente classificabile come gli arancioni del “movimento umanista”" sono presenti in forma di movimento dagli anni ’70. Come Partito Umanista dal 1984 (in Italia) e coerentemente non hanno mai cambiato nome (al contrario di TUTTI gli altri), quindi si può tranquillamente definire il Partito più "vecchio" d’Italia. Mi sembra un po’ superficiale definirli come tu (non) hai fatto. Comunque vorrei ricordare a tutti che gli umanisti erano (a detta di tutti i partecipanti) un terzo del totale, e rappresentano sia a livello numerico che ideologico la vera novità di questo movimento per la pace.
    Inoltre non chiamerei assolutamente "estrema sinistra" quella presente il 17 marzo a Roma. E’ una sinistra di pace, è una sinistra di progresso, è una sinistra che si sente tradita dalla sinistra (che non so definire perchè x me non è sinistra...diciamo attualmente di Governo!). Come qualcuno prima di me ha detto: se non lottiamo per la pace che sinistra siamo! La definizione di "estrema sinistra", che richiama oscure compresenze, mi pare appropriata x chi vuole denigrarla e non per chi vuole costruire un’alternativa: di pace, di non-violenza, di progresso, di giustizia...
    Un abbraccio...sascha