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Emendamento sui migranti per Congresso PRC

Publie le martedì 22 febbraio 2005 par Open-Publishing

Partito della Rifondazione Comunista Parigi

Al Congresso

Il Dipartimento ha deciso di offrire a tutte/i compagne/i coinvolti nei lavori congressuali questo documento come occasione di riflessione e insieme di informazione. Siamo sicuri che verrà interpretato da tutti come un contributo alla necessaria riflessione sulla natura e sulla cultura del partito che cerchiamo di rifondare. A Bologna, con la prima Conferenza nazionale del partito, definimmo alcuni “percorsi di uguaglianza” che riguardavano l’affrancamento dei migranti dalla visione securitaria e/o solidaristica del fenomeno migratorio. Oggi bisogna ampliare il concetto di uguaglianza ricordando che se A=B, anche B=A: si tratta di un principio che è alla base della società policulturale dove l’integrazione o è un fenomeno reciproco o non è, o, peggio ancora, è una ipocrisia.

Il nostro partito ha bisogno di questa uguaglianza: la lettura della realtà, il valore del tempo e dello spazio, le modalità della comunicazione e dell’ascolto, la percezione stessa della democrazia e della libertà che noi abbiamo sono intrise di eurocentrismo, derivano da conoscenze, storie e tradizioni che spesso leggiamo con il binocolo capovolto che restringe il campo dei riferimenti. Dovremmo invece ampliarli, accogliendo le esperienze delle compagne e dei compagni africani, latinoamericani, asiatici, le loro diverse pratiche di lotta sindacale e politica, le loro diverse visioni di una società di uguali e pacifici, i loro diversi sogni (e bisogni) di comunismo.

Al fianco delle elaborazioni teoriche, dei richiami filosofici e delle citazioni, al fianco del confronto fra le linee di strategia politica che attraverseranno il Congresso, auspichiamo che emerga una volontà di contaminazione che arricchisca tutto il dibattito.

Fra le lavoratrici e i lavoratori che si battono per i diritti, contro la spirale perversa flessibilità, precarietà, perdita di welfare, i migranti rappresentano una voce emblematica, essenziale per la ricomposizione di classe.

Il binomio democrazia-libertà, per noi così importante, e la condivisione fra tanti delle decisioni e degli impegni, sono obiettivi e modalità di lotta che i migranti stanno imparando a praticare nella prassi dell’autorganizzazione e nella rivendicazione di una piena cittadinanza: si tratta di obiettivi che ci accomunano.

L’opposizione alla guerra e al neoliberismo ci vede gli uni al fianco degli altri. Noi, insieme, crediamo ad un altro mondo possibile.

Roma 10/2/05

Il Dipartimento Immigrazione del PRC

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Dipartimento Immigrazione PRC

Con questo documento, il Dipartimento Immigrazione intende mettere a disposizione della Commissione nazionale, delle varie istanze del partito e di tutti /e i/le compagni/e riflessioni, stimoli, provocazioni e proposte. Non si tratta di tesi preconfezionate, non esprimiamo certezze, ma dubbi ed ipotesi su cui ragionare, fare verifiche, indagare. Sicuramente si tratta di riflessioni che vengono dall’esperienza, dai contatti con tante realtà locali, dalla passione che mettiamo nelle cose che facciamo, anche in quelle che si rivelano errori. La stagione che si apre nel partito, nel movimento e sull’orizzonte politico è piena di incognite, di speranze e di preoccupazioni: è nostro dovere cercare la ragione delle nostre scelte, in modo laico, non ideologico e partecipato.

Il testo, originariamente steso dai soli compagni del dipartimento, è stato sottoposto all’esame dell’intera Commissione nazionale, molte compagne e compagni hanno suggerito correzioni, ampliamenti, diversità di punti di vista, ipotesi di lavoro, che abbiamo tentato di accogliere e integrare nel testo definitivo.

Premessa

Il quadro di riferimento da cui intendiamo partire vuole riassumere i mutamenti che nel partito, nel movimento - o forse è meglio dire nei movimenti - e nel rapporto fra questi soggetti è intercorso negli ultimi 3 anni. Comunque si voglia ragionare è dal binomio partito/movimenti che, a nostro avviso, bisogna rimodulare, programmare e definire il nostro agire politico.

Inutile dire che le realtà con cui oggi ci rapportiamo sono profondamente modificate rispetto a quanto avveniva nei giorni di Genova.

C’è chi parla di crisi del movimento, di nuova fase, di deterioramento dei rapporti con il nostro partito, di difficoltà oggettive, di frantumazione delle istanze e di un tessuto di relazioni faticosamente costruito.

Per quanto riguarda i settori che ci competono, quelli connessi alle problematiche relative all’immigrazione, quattro sono, a nostro avviso, i punti di riferimento su cui è necessaria una analisi:

1) La perdita progressiva degli spazi di legalità

2) La frantumazione del movimento antirazzista e le difficoltà ad elaborare momenti comuni di mobilitazione

3) Gli sviluppi di riflessione e di organizzazione nel partito

4) Le connessioni complesse nel rapporto fra partito, movimento antirazzista e autorganizzazione migrante

I punti

1) L’applicazione della Bossi Fini si è rivelata come il primo passo di una politica tesa a scardinare anche i più elementari principi di legalità democratica nei confronti degli uomini e delle donne migranti. L’applicazione del “contratto di soggiorno” anche se si accompagnava alla più estesa sanatoria mai realizzata (oltre 700.000 domande presentate i cui costi sono stati addebitati alle lavoratrici e ai lavoratori migranti), ha portato alla realizzazione di un regime di precariato permanente. Un regime denunciato con forza solo dalle poche realtà di migranti autorganizzate, da componenti già attive del movimento e da sparute forze politiche, voci poco ascoltate. La diminuzione della durata dei permessi di soggiorno istituzionalizza la diminuzione del potere contrattuale, di per sé già scarso, di chi non può più disporre di contratti di assunzione di alcun tipo, tantopiù a tempo indeterminato. Ritrovarsi senza lavoro, dover cedere a norme fittizie di regolarizzazione o, peggio ancora, ritrovarsi costretti in clandestinità, non rappresenta l’eccezione ma la regola. Il lavoro nero è per molti e molte una condizione imposta che, oltre tutto, favorisce l’estrema flessibilità e diversificazione delle condizioni di lavoro e dei salari e, inducendo un processo di livellamento verso il basso della condizione di tutti i lavoratori/trici nel mercato globalizzato, ripropone per noi l’obiettivo “a parità di lavoro, parità di salario”.

Ma è sul versante della dissoluzione dei diritti che il governo, con una scarsa attività delle opposizioni, sta attuando vere e palesi violazioni delle più elementari norme nazionali e internazionali. Le prime volgono verso una restrizione esponenziale della loro applicazione, le altre - come la Convenzione internazionale per i diritti dei migranti - neanche vengono ratificate. I Cpt ( istituiti come va sempre rammentato dal centro sinistra, mediante una legge che ha goduto dei nostri voti) hanno assunto in maniera ancor più marcata che in passato il proprio ruolo di galere etniche, destinate ai cittadini non comunitari che non hanno commesso alcun reato. Il raddoppio dei tempi di trattenimento, le spese per la loro diffusione sul territorio o il loro ampliamento, le modalità inaccettabili con cui vi si viene reclusi e con cui si viene espulsi o condannati alla clandestinità perenne, la pratica dei rimpatri collettivi forzati, sono ormai una prassi che scandalizza solo pochi strenui difensori della legalità. E ancora, le recenti vicende siciliane della Cap Anamur, di Lampedusa (con la deportazione di 1200 persone mai identificate), di Gioia Tauro (14 richiedenti asilo kurdi tenuti per giorni in mare contro la stessa Convenzione di Dublino), non sono fatti marginali o scollegati fra loro. Si sta imponendo in sede europea, come in sede nazionale, un modello di cancellazione di ogni vincolo, la stessa legge Bossi Fini con simili pratiche viene scavalcata a destra e alle eccezioni poste dalla Corte Costituzionale si risponde con “decreti sberleffo”. Si va articolando un mondo in cui le dinamiche di guerra globale impongono a tutti una restrizione degli spazi democratici. Per gli uomini e le donne migranti questa restrizione avviene in maniera più sollecita e grave: basti pensare alle espulsioni di cittadini sospettati di essere pericolosi per la sicurezza dello Stato, senza che nessuna autorità giudiziaria abbia potuto svolgere accurate indagini, basti pensare al moltiplicarsi delle forme di deportazione, di rimpatrio forzato, di respingimento alla frontiera. Il Parlamento non è messo nelle condizioni di sapere o intervenire, tutto si gioca in una pericolosa catena di comando che, a partire dal Ministero dell’interno, raggiunge le singole questure. Nessuno è chiamato a rispondere del proprio operato.

In questo quadro, pur reputando fondamentale mantenere e sviluppare l’utilizzo degli strumenti che dovrebbe offrire il diritto, bisogna comunque partire dal presupposto che si vive in un paese, e in un continente, in cui aggirare i principi del diritto è prassi. In attesa del ripristino di principi di legalità democratica, restano alcuni impegni fondamentali: quello di informare correttamente ogni persona raggiungibile sulla totale discrezionalità con cui avvengono le violazioni e, insieme, costruire e radicare aggregazioni fondate sull’apertura di vertenze, specifiche o generali, capaci di coordinarsi fra loro, di agire sia in condizioni di emergenza che sulla base di indicazioni di prospettiva. In sintesi si tratta di tradurre in termini concreti ogni processo di mobilitazione e di conflitto in percorsi di lotta.

2) Il movimento antirazzista e dell’auto organizzazione migrante ha, di fatto, subìto una fase recessiva dopo la grande manifestazione del 19 gennaio 2002. L’approvazione della Bossi Fini è stata una sconfitta che si è tradotta in molti casi nel ritorno alle vertenze localistiche. Non che queste non siano preziose e fondamentali, ma si è delineato un ripiegamento verso il territorio che ha spesso coinciso con un manifesto disinteresse verso gli obiettivi di carattere generale. Lo stesso ridimensionamento delle manifestazioni a carattere nazionale è coinciso con una amara constatazione: se per qualche tempo si è pensato che l’intero movimento dei movimenti avesse compreso e fatto propria l’importanza strategica delle questioni connesse all’immigrazione, in realtà questa ipotesi si è rivelata come una semplice ed effimera dichiarazione di intenti. La centralità ineludibile dei temi connessi alla guerra permanente ha fatto passare in secondo piano o declinare in maniera subalterna, le vertenze dei migranti che, talvolta, vengono ricordate solo ritualmente, se non addirittura strumentalmente. (A questo proposito va ricordata la querelle nata dopo la proposta del Gruppo di continuità di far coincidere una manifestazione dei migranti con la manifestazione contro la firma della Carta Europea, proposta sentita da gran parte del movimento come strumentale).

Si aggiunga, ancora, l’oggettiva fase di stallo dei movimenti nelle loro espressioni partorite a Genova. Lo stesso Tavolo Migranti dei Social Forum, rimasto per molto tempo l’unica struttura realmente rappresentativa ed efficace, ha con l’andare del tempo perso molti punti di riferimento. Il Tavolo, da struttura positivamente ibrida, capace di riassumere tematiche territoriali, analisi ed elaborazioni politiche di alto profilo, coinvolgimento diretto e attivo dei e delle migranti, ha subito un processo di riduzione ad un gruppo più ristretto con il rischio di autoreferenzialità e di minore rappresentatività. Anche se recentemente in fase di rielaborazione critica, è ancora presente il “limite” di avere come contesto di riferimento prevalente, anche se non unico, quello delle aree industriali centro settentrionali. Aree caratterizzate da una presenza di migranti più stabilmente inseriti nel mondo del lavoro, più sindacalizzati e consapevoli della propria condizione di classe.

D’altro canto, anche negli altri ambiti dell’agire politico non sono emersi soggetti in grado di giustapporsi al Tavolo. L’impegno dell’Arci da un lato, la crescita delle realtà auto organizzate degli immigrati dall’altro, non sono riusciti a catalizzare la totalità degli spazi politici. Né sono state sufficienti le realtà territoriali, le reti nazionali di movimento, il sindacalismo confederale o di base.

Lo stesso Comitato Immigrati, la cui nascita ha segnato una nuova fase del movimento, ha spesso oscillato fra la volontà di costruire percorsi di lotta comuni e la tendenza ad isolarsi in nome di una - a volte supposta a volte reale - impossibilità a lavorare con gli autoctoni. Nelle proprie motivazioni fondative il comitato non ha un referente prevalente ma si rivolge a migranti singoli o associati cercando non solo di interpretarne i bisogni di sopravvivenza ma di innestare la “risposta migrante” dentro le risposte che propone il movimento dei movimenti per riuscire a trasformare la società italiana puntando sulla partecipazione e la rappresentanza delle proprie istanza. D’altro canto il Comitato ha come referente prevalente la realtà migrante centromeridionale, precaria, in nero, con ampio ambulantato e lavoro di cura. Una realtà più attenta ai bisogni di sopravvivenza e ai diritti primari. Va però ricordato che, ad arricchirne la realtà, ci sono le sue diramazioni del nord che pongono la loro attenzione anche al lavoro migrante e alle fasce di immigrati più stabilmente inserite nel territorio, interpretandone i bisogni reali. Il Comitato immigrati, pur avendo organizzazione nazionale non è però l’unica realtà autoorganizzata presente nel territorio. L’auto organizzazione è di per se fenomeno complesso che identifica realtà caratterizzate da un percorso totalmente condiviso fra autoctoni e migranti e realtà in cui l’ “essere migranti” è il principio che determina l’agire nei conflitti. Un contesto fluido in cui gli stessi attori spaziano per ora da un luogo all’altro in base alle condizioni che determinano e che si determinano.

C’è stato, dunque, in condizioni e con modalità diverse, un frantumarsi progressivo delle esperienze acquisite, in rivoli talvolta incomunicanti e fondamentalmente impotenti. Perfino gli eventi tragici della scorsa estate in Sicilia, dalla Cap Anamur alle deportazioni in Libia, non sono stati sufficienti a determinare momenti forti di mobilitazione, se non a livello locale e, comunque, limitati numericamente. Va anche rammentato che la nascita del Comitato e delle altre realtà autorganizzate è stata vissuta in maniera complessa da tutte le realtà del mondo antirazzista autoctono. C’è stato chi ne ha colto il valore propulsivo e di emancipazione, chi è riuscito, con tutte le contraddizioni a percepirne gli elementi di ridefinizione dell’agire politico che queste realtà pongono, in termini di ruoli, di linguaggi, di prospettive e di costruzione di nuova cultura politica. Ma ci sono state e ci sono ancora resistenze eurocentriche, tentativi di cooptazione o di vero e proprio patronato. Sentir dire da dirigenti antirazzisti del mondo politico, sindacale, associativo “i miei immigrati” è una frase che deve essere stigmatizzata, chiunque sia a pronunciarla.

Tavolo, Comitato e Arci, come tante altre realtà locali o meno note, sono, comunque, per noi compagni di viaggio preziosi, con cui confrontarsi, costruire conflitti, elaborare strategie condivise, in un contesto in cui le compagne e i compagni del partito, che agiscono dentro e fuori il movimento, hanno dimostrato e dimostrano di poterlo fare mantenendo una propria autonomia, una disponibilità al confronto e una capacità di utile mediazione.

Inoltre oggi ci sembra di poter dire che questa caduta libera si sia momentaneamente interrotta: vuoi per l’accumularsi di lotte incentrate su bisogni concreti ed emergenze, vuoi per una progressiva presa di consapevolezza della necessità di luoghi plurali di confronto e di azione politica. In molti territori si sta assistendo alla nascita di nuovi soggetti capaci di contaminare i preesistenti. La rete antirazzista siciliana, la rete del lavoro migrante, in Veneto, il coordinamento immigrati di Bergamo e quello di Bologna, il Coordinamento degli sportelli di Roma, sono solo alcuni fra gli esempi evidenti. Si tratta di un lavoro che è ancora agli inizi e che è attraversato da mille contraddizioni, ma che ci sembra abbia dato un suo piccolo contributo a rivitalizzare il movimento e a tentare di riassorbire, almeno in parte, dissapori, conflitti, rancori e difficoltà a connettersi. Diviene necessario lavorare ancora di più per favorire questi percorsi. D’altro canto il fatto di essere riusciti ad organizzare dal basso, senza mezzi, con l’opposizione dei sindacati confederali, la manifestazione nazionale del 4 dicembre, va comunque considerato un fatto positivo.

Particolarmente complesso è poi il rapporto con la CGIL nel settore immigrazione. L’impegno nostro e di gran parte del movimento per costruire percorsi e scadenze di lotta unitarie è sempre miseramente naufragato a causa della subalternità della CGIL, da un lato alle politiche della Cisl e della Uil e, dall’altro alle scelte dei DS, indisponibili a riconoscere le caratteristiche securitarie e anticostituzionali della legge Turco-Napolitano. Con la CGIL si alternano, dunque, momenti di discussione, anche proficui e paritetici, a momenti di unilaterale aggressività politica nei confronti del partito e del movimento. In occasione della manifestazione del 4 dicembre, ad esempio, si è raggiunto un livello di attacco particolarmente pesante nei confronti del nostro partito, con un boicottaggio esplicito, mirato ad impedire la partecipazione dei migranti, in particolare nelle Marche, in Liguria e in Toscana. Di contro va invece segnalata la Fiom ed alcune Camere del Lavoro del Nord e del Nord-est, che hanno dato il loro contributo prezioso alla riuscita della manifestazione.

3) Nel nostro partito l’evoluzione determinata dalla nascita del Dipartimento immigrazione - legato all’ “area movimenti” - e la crescita di una Commissione nazionale articolata, anche se a macchia di leopardo, sul territorio nazionale, ha prodotto effetti positivi ma non ancora sufficienti. Si sono realizzati, oltre alla prima Conferenza nazionale, altri due appuntamenti di carattere nazionale (a Milano e a Napoli), c’è stato un buon successo dei due candidati migranti presentati nelle liste del Prc per le elezioni europee. In alcune federazioni si è compresa l’importanza strategica delle questioni connesse all’immigrazione, nominando responsabili provinciali o regionali, favorendo la nascita di commissioni locali, dando impulso alla realizzazione di iniziative. Va salutata con interesse la nomina di numerosi assessori con delega all’immigrazione, provenienti dalle file del Prc. Occorre, però, che gli amministratori e consiglieri del PRC negli Enti Locali, superando modalità relazionali solidaristiche e assistenziali, assumano un ruolo di garanzia di pari diritto in ogni pratica di inclusione sociale e civile, sostenendo anche le ragioni del passaggio dalle questure agli enti locali delle pratiche relative al soggiorno dei migranti.

D’altro canto vanno registrate numerose e non colmate carenze di carattere strutturale. Laddove sono state costituite, le commissioni locali o regionali non sempre godono dell’appoggio sostanziale e politico degli organi dirigenti del partito. Non viene compreso il loro carattere specifico, il valore aggiunto che possono portare nel processo di autoriforma del partito. A volte le commissioni locali e regionali sono osteggiate perché, operando nel settore migranti in accordo con la Commissione Nazionale, compiono scelte politiche che prescindono dalle logiche di corrente. Questo non significa che le/i compagne/i che sono nelle commissioni immigrazione hanno scelto di non militare nelle varie correnti del partito, significa soltanto che si occupano di cose così legate alla vita reale dei migranti da trovarsi naturalmente d’accordo a prescindere dalla propria appartenenza o da riuscire facilmente a compiere scelte condivise. Questa logica non sempre è capita dalle strutture burocratiche del partito, per questo troppo spesso le commissioni non riescono a crescere dovutamente e a dare spazio ai compagni e alle compagne migranti che si affacciano nelle nostri circoli. Il contesto in cui operano, in certi casi, è perfino foriero di elementi di disgregazione. Ci sono regioni in cui l’operato di una commissione provinciale non si incontra con quello della città vicina, nonostante le problematiche territoriali siano spesso simili. D’altro canto c’è fra i compagni anche la tendenza, ancora non superata, a vivere con vittimismo tali condizioni rinunciando a costruire lavoro politico, pur avendone la forza e la capacità, frustrati da ostacoli interni ed esterni. L’avvicinarsi delle scadenze congressuali ed elettorali mette ancora più in condizioni di fragilità il lavoro prezioso finora svolto, esponendolo ai rischi di frantumazione o di arretramento.

Infine va registrato un forte timore, espresso anche nell’ultima riunione nazionale della commissione, si tratta della preoccupazione che sia possibile una deriva di “real politik” che, in nome della pur necessaria politica per la costruzione di un alleanza antiberlusconiana, sacrifichi alcune battaglie e alcuni principi su cui si fondano le indicazioni programmatiche del partito in materia di immigrazione. Pur comprendendo le necessità di una politica più pragmatica, sentiamo che su alcuni punti non esistono spazi di mediazione possibili. Le questioni dirimenti sono: l’abrogazione della Bossi Fini senza tornare alla Turco Napolitano, la chiusura dei Cpt e di ogni altra forma di detenzione amministrativa, la necessità di una legge che garantisca il diritto d’asilo, una cittadinanza basata sulla residenza, il voto, la fine della pratica delle deportazioni e delle espulsioni di massa, la sottrazione al Ministero dell’Interno delle pratiche relative al soggiorno, la rottura del legame fra soggiorno e contratto di lavoro, la abolizione della logica delle quote e dei flussi, la necessità di un sistema di regolarizzazione permanente. Non vanno dimenticati i Rom per i quali va pretesa l’abolizione dei ghetti dei campi, con provvedimenti nazionali, regionali e locali, verso insediamenti di civile abitazione. Sono temi che, se sintetizzati nella formula “abolizione della Bossi-Fini”, trovano vasti consensi, ma che, se esplicitati, mostrano la reale distanza esistente fra il Prc e il resto del centro sinistra.

Come si è già detto precedentemente, la presenza della commissione sul territorio nazionale è a macchia di leopardo: ci sono città e regioni in cui il lavoro ha una sua stabilità e una varietà di contenuti e delle priorità che ne costituisce l’aspetto positivo e che comincia a configurarsi come un esperienza destinata a espandersi. In altre località le commissioni sono il frutto dell’impegno generoso di poche/i compagne/i che ancora non sono stati in condizione di programmare il proprio lavoro, in altre località le commissioni sembrano esistere solo virtualmente o essere enunciazioni della presenza di singoli compagni. Questo è un limite che si rischia di pagare nel breve, medio e lungo termine. Questa realtà è stata chiaramente denunciata dalla partecipazione del partito alla manifestazione nazionale del 4 dicembre 2004, partecipazione, in moltissimi casi generosa, ma non omogenea per provenienza e per numeri e sulla quale abbiamo il dovere di indagare e riflettere.

4) Il rapporto fra partito e movimento sulle questioni connesse all’immigrazione risente, in questo periodo, di un più generale momento di scollamento.

Il percorso intrapreso dal Prc è stato da alcuni interpretato come un “abbandono delle istanze di movimento verso una deriva governativa”. L’anomalia originale della presenza di un partito nel movimento è stata, in questa circostanza, sentita come un ostacolo da superare in nome dell’autonomia dalla politica. Con diversi accenti e con diverse modalità, si è comunque intaccato quell’asse di fiducia che si era finora stabilito. Ė una questione politica che resta aperta, che va affrontata dal partito e alla quale noi possiamo dare il nostro modesto contributo. Chi, esterno al partito, lavora nel movimento sull’immigrazione, a parte casi sporadici, percepisce l’impegno dei compagni e delle compagne del Prc come qualcosa di diverso da come percepisce i nostri organismi dirigenti. Ci vede impegnati fianco a fianco, esprimere i nostri dubbi e le nostre perplessità, ma non estraniarci dalle dinamiche di conflitto in cerca di soluzioni accomodanti. Le parole d’ordine emerse dalla nostra conferenza nazionale sono confermate dal nostro agire politico nei territori, dalle nostre prese di posizione anche pubbliche, dal nostro impegno per quanto esiguo come lo sono le nostre forze. Per fugare dubbi e per non confermare l’idea che ci sia uno iato fra la Commissione e la direzione del partito, è dovuto uscire su “Liberazione” un articolo del responsabile nazionale del dipartimento. D’altro canto l’impegno che abbiamo messo per la manifestazione del 4 dicembre dovrebbe essere un ulteriore segnale positivo per tutto il movimento.

Ciò non toglie che, scendendo nelle realtà locali, si assista ad una pluralità di modalità di partecipazione. Esistono luoghi in cui il lavoro nel partito si integra con quello del movimento, luoghi in cui chi opera nel partito trova spazio solo nel movimento, luoghi in cui le rispettive soggettività si ignorano o il movimento è talmente frastagliato da determinare condizioni per cui si collabora con alcuni, ma non con altri. Ancora più complessa la relazione con le realtà dell’auto organizzazione, dell’associazionismo e delle comunità migranti. I nostri circoli non sono divenuti quei luoghi aperti e accoglienti di disobbedienza concreta alla Bossi Fini che propugnavamo a Bologna, l’intervento del partito solo in alcuni casi si è configurato come costruzione di alleanza fra soggettività, ma è ancora troppo spesso declinato in termini di necessario ma insufficiente solidarismo. Anche in questo caso ci vorrebbero pagine per descrivere una pluralità di situazioni che vedono come estremi il superamento della settorializzazione del tema o viceversa l’esclusione del tema. Rapporti complessi, in divenire, caratterizzati dal fatto che nel dipartimento si è tentato per quanto possibile di mantenere canali di dialogo con tutte le forze interessate, dall’associazionismo laico e cattolico al mondo del lavoro, dai temi imposti dall’emergenza alle scelte che implicano prospettive di lunga durata, sempre prediligendo logiche unitarie, basate su contenuti condivisi e compartecipati.

Si è infine, nei limiti del dipartimento, tentato anche di fungere da canale di comunicazione con i rappresentanti politici del partito con alterni risultati. È questo un punto delicato del ragionamento: se i quadri dirigenti del partito sono a volte percepiti come distanti, se non ostili, dal movimento, ciò è indicatore di un problema che non può essere esaurito nella semplice soluzione "sbaglia il partito” o “sbagliano i movimenti". Si tratta di considerare caso per caso: ci sono luoghi in cui si accentua il disagio come pretesto per rompere le relazioni, altri luoghi sono attraversati dalle stesse - a volte torbide - dinamiche interne del partito e questo rende difficile le relazioni, in altri ancora le ragioni sono da ricercare nella oggettiva assenza nelle pratiche di movimento, tanto di alcuni dirigenti locali quanto da alcuni rappresentanti istituzionali, i quali non considerano prioritario il tema dei migranti.

Alla luce di quanto enunciato, anche se in maniera prevalentemente esemplificativa, ci pare opportuno delineare un quadro di proposte e di iniziative su cui lavorare. Per comodità vengono divise in quattro gruppi:

1) Strutturazione della Commissione immigrazione

2) Gestione del lavoro nella prossima fase congressuale

3) Preparazione della prossima conferenza nazionale

4) Prospettive future, sia in vista delle scadenze elettorali sia delle iniziative di movimento

La Commissione

1) Emerge l’importanza di dare una fisionomia più stabile alla commissione nazionale senza che questo si traduca un una sua burocratizzazione. Tutte le federazioni vanno indotte, anche attraverso un passaggio nazionale, all’individuazione di responsabili provinciali capaci di costruire attorno a sé gruppi di lavoro operanti sul campo. Queste commissioni locali debbono essere messe in condizione di poter operare, devono avere i mezzi e gli strumenti necessari per produrre iniziativa politica e devono avere accesso agli organismi di gestione del partito. Insomma va riconosciuta e formalizzata l’importanza di tali strutture. Lo stesso deve avvenire con gli organismi regionali: l’obiettivo a breve termine deve consistere nell’avere in ogni regione una/un “responsabile immigrazione” in condizione di poter coordinare il lavoro fatto nelle singole federazioni. In alcune regioni sono già in programma incontri aperti che portino alla realizzazione di tali obiettivi. Ovviamente non si tratta di iniziative che debbono calare dall’alto, ma realizzarsi come esigenze organizzative, tanto attorno a questioni specifiche quanto a temi di carattere generale. Queste richieste non derivano dalla pur legittima aspirazione del dipartimento a veder riconosciuto il proprio impegno, ma soprattutto dalle scelte del partito che hanno posto il tema dei migranti fra i tre che caratterizzano i suoi indirizzi: lavoro (Legge30), scuola (Riforma Moratti) e Immigrazione (Legge Bossi-Fini).

Le commissioni regionali e provinciali dovrebbero agire in piena autonomia rispettando i principi che ci siamo dati a Bologna, avere carattere aperto e interlocutorio con le realtà circostanti, avanzare proposte ed elaborare progetti di lavoro, di inchiesta e di ricerca, attrarre energie nuove attorno ad un tema che ci risulta molto sentito soprattutto dalle nuove generazioni. Non sappiamo - e su questo il dibattito è aperto - se questo debba tradursi immediatamente in una proposta di modifica statutaria che ne definisca il ruolo, ci sono pro e contro. Da una parte il rischio di vedere il nostro lavoro sottoposto alle dinamiche correntizie che finora sono state arginate, dall’altra la possibilità di veder riconosciuto in maniera più certa un ruolo politico nel partito.

In tale contesto si inserisce la proposta avanzata da alcuni compagni immigrati di dare vita nella Commissione ad un “coordinamento degli immigrati” iscritti. Anche queste proposte si pongono in chiave problematica: ferma restando l’importanza strategica di garantire un ruolo chiave all’auto organizzazione, occorre evitare il rischio di creare organismi paralleli (coordinamento e commissione) che si occupino delle stesse cose. Va ponderata una proposta che valorizzi al massimo la presenza migrante nel partito, ma nel contempo non crei dei luoghi separati a cui finiscano con l’essere delegate (ghettizzate) le questioni dell’immigrazione. D’altro canto non si può negare che un coordinamento ( forum, associazione, comitato ...) potrebbe prendere iniziative ed operare in ambiti di movimento o istituzionali che non prevedono la partecipazione diretta del partito, avere un ruolo di più facile rapporto con le associazioni dei migranti e le comunità, aprire un percorso di iniziative culturali prezioso nella prospettiva della costruzione di un “partito meticcio”. Non necessariamente i suoi compiti dovrebbero essere limitati alla questione immigrazione, ci sono infatti problematiche che investono tutte e tutti, come la casa, il lavoro, la sanità, l’istruzione, la pace ecc. e sulle quali il movimento dei migranti è in piena sintonia con il movimento autoctono. Crediamo che anche questo sia un tema importante da trattare nella prossima Conferenza nazionale.

Le commissioni debbono, infine, poter svolgere un ruolo propulsivo all’interno del partito, sperimentando, dove ce ne è bisogno di veri e propri percorsi di formazione su un tema ancora poco compreso, così come operazioni di vera e propria inchiesta per comprendere e far comprendere meglio le molteplici realtà migranti presenti nel territorio e avvicinandole contemporaneamente ad un partito più pronto a coglierne gli elementi di innovazione, anche politica, di cui sono portatrici.

La fase congressuale

2) La prossima fase congressuale, nella sua problematicità, è anche una occasione per verificare se i cambiamenti che si sono prodotti nel partito in materia di immigrazione, siano formali o sostanziali. Dai congressi di circolo sino all’appuntamento nazionale, dobbiamo ritenerci impegnati per far si che le tematiche di cui ci occupiamo non si limitino a qualche parola di circostanza o a generiche dichiarazioni di intenti. Se l’idea di partenza è quella già esposta di realizzare un “partito meticcio”, se valgono le dichiarazioni provenienti anche dai membri più autorevoli del partito, questa è l’occasione per tradurre le parole in fatti concreti. L’immigrazione, in quanto questione connessa al mutamento sociale e culturale del paese e del continente Europa, deve trovare rappresentanza, spazi e strumenti operativi. Crediamo che questo approccio, magari declinato in forme diverse derivanti dalle diverse sensibilità e appartenenze, possa costituire un terreno comune di riferimento.

Il concetto da far prevalere è che occuparsi di tali tematiche non solo rafforza il partito e ne esprime la radicale differenza rispetto al restante panorama politico, ma può divenire foriero di nuove energie, costringere le altre forze a fare i conti con un bagaglio di competenze acquisite, di vertenze in atto, di percorsi condivisi con movimenti e società civile. Già oggi siamo considerati da molti cittadine e cittadini migranti il soggetto “meno nemico”, da cui ci si aspetta di più e su cui si ripongono aspettative generali e non corporative.

La fase congressuale deve raccogliere queste suggestioni, favorire la presenza, l’intervento, l’ingresso negli organismi dirigenti di queste donne e questi uomini, non solo perché migranti, ma in quanto spesso sono l’espressione di nuova e più radicale soggettività politica, nei luoghi di lavoro come nelle battaglie per veder riconosciuti i propri diritti minimi. È necessario arrivare al congresso nazionale vedendo riconosciuto il valore strategico di questa progettualità, portando delegati nazionali, definendo mozioni, elaborando proposte. Ma è soprattutto dopo il Congresso, nella riorganizzazione dei dipartimenti e delle aree di lavoro, che dovrebbe emergere una attenzione trasversale al tema: ogni dipartimento (dal lavoro alla scuola, dal welfare ai diritti, dalla formazione alla cultura della pace, agli Enti Locali...) dovrebbe essere connesso con il dipartimento immigrazione, stabilendo relazioni reciproche stabili.

La seconda Conferenza

3) La prossima conferenza nazionale, da tenersi a nostro avviso nell’autunno del 2005, dovrà raccogliere alcuni dei suggerimenti emersi dalla prima ma definirsi anche come momento radicalmente diverso della politica. Il punto di partenza è semplice e schematico: in preparazione delle prossime elezioni politiche si vanno già definendo ipotesi di programma. Da una parte c’è un centro sinistra che nei “salotti buoni” prepara una riverniciatura della Turco Napolitano, dall’altra una parte del movimento che rifiuta qualsiasi approccio alla politica. Il rischio profondo è che si vada verso una riproposizione della situazione del 1998, quando, sulla legge sopra citata, il movimento antirazzista si spaccò fra chi la riteneva il “meno peggio” e chi ne intravedeva gli effetti nefasti che avrebbe prodotto. Se ciò accadesse i risultati sarebbero devastanti per tutti. Dato per scontato che non sarà certo una conferenza a mutare il corso dei processi, ci pare però opportuno dare un nostro utile contributo.

Quella che dobbiamo immaginare è una “conferenza laboratorio” aperta e attraversata dai movimenti. Il messaggio deve essere quello della partecipazione ad uno spazio di costruzione di programma politico. Dovremmo iniziare sin da ora ad individuare alcuni gruppi di lavoro autonomi, basati su criteri tematici specifici: (es cittadinanza, cpt, asilo, auto organizzazione, xenofobia, ecc...). Questi gruppi dovrebbero cominciare a produrre materiale a svolgere lavoro di rete, ad articolare proposte forti magari coadiuvati da intellettuali interni o esterni al partito. Pensare a momenti di carattere seminariale, anch’essi aperti, di ricerca vera e propria, di coinvolgimento attivo nelle lotte e nelle vertenze che si aprono. Costituire insomma un complesso di saperi collettivi capace non solo di raccontarsi come esperienza, ma anche di definire proprie griglie propositive.

La conferenza a questo punto non dovrà essere altro che il punto di coagulo di tali saperi acquisiti, non in funzione della definizione di una nuova legge sull’immigrazione, ma di criteri dirimenti con i quali potrà essere possibile andare a discuterne con gli altri soggetti della politica. Contemporaneamente la conferenza dovrà essere luogo di elaborazione e di conflitto, indipendentemente dal colore del governo prossimo venturo: i vincoli europei, quelli imposti dal neoliberismo, il ritardo culturale e politico con cui la società italiana percepisce al proprio interno i mutamenti in senso policulturale, non lasciano prospettare enormi speranze. Quella che dovrà uscire dalla conferenza dovrà essere una capacità propositiva che non sia subalterna alle logiche politiciste, ma che mantenga la capacità di esercitare pressioni sulla politica. Dovrebbe essere insomma un appuntamento utile tanto al partito quanto ai movimenti, ma soprattutto capace di registrare la centralità di coloro che dell’immigrazione sono i soggetti attivi in carne ed ossa.

Dovrà essere anche un esercizio di “democrazia partecipativa”, necessario, complesso e problematico, con assunzioni di responsabilità in cui il partito possa mettersi in gioco e chiedere agli altri soggettivi fare altrettanto. Naturalmente un programma così impegnativo deve prevedere un rafforzamento del dipartimento.

Le proposte

4) Quello che ci aspetta è un futuro denso di impegni e di emergenze, dalle scadenze elettorali a quelle di movimento. Attorno ad alcune scadenze già in agenda si tratta soprattutto di stabilire alcune assunzioni di responsabilità. Il 2 aprile 2005, come deciso dal FSE di Londra, si svolgerà una giornata europea per “la libertà dei migranti” a cui stanno aderendo organizzazioni e forze politiche di numerosi paesi. In tale contesto va prefigurato un impegno specifico del partito che comprenda tanto l’adesione alle iniziative di movimento quanto la promozione di momenti propri. Un percorso del genere potrebbe anche rispondere alle esigenze emerse, soprattutto in alcune realtà meridionali, di rendere più visibile l’impegno ed il ruolo del partito. Su questo avremo modo di confrontarci.

 Ė certo, comunque che occorra un ruolo attivo della Sinistra Europea nella costruzione di una piattaforma comune sull’immigrazione. Se non troviamo un accordo con le altre forze europee, comparando le varie legislazioni nazionali e proponendo direttive comuni chiare e vincolanti, sarà sempre più difficile operare cambiamenti significativi alle attuali leggi nazionali. Occorre, innanzi tutto, trovare forme di verifica e controllo sopranazionale sul rispetto dei vari trattati ratificati, a cominciare dalla Convenzione dei diritti umani, occorre altresì, far ratificare ai vari paesi europei la convenzione sui diritti del lavoro dei migranti.

- Altrettanto importante è la scadenza elettorale che coinvolge gran parte delle Regioni italiane. Bisogna imporre alcune parole d’ordine nette, su alcuni punti chiave, che ci permettano di costruire alleanze con il resto del centro sinistra. Di immigrazione si deve parlare e in maniera esaustiva nella realizzazione dei programmi elettorali, va messo in chiaro che non si è disponibili ad accettare soluzioni ambigue in materia di Cpt (siamo per l’abolizione e l’indisponibilità ad ospitarne nella propria regione) e che vogliamo modalità di partecipazione che portino al pieno diritto di voto, politiche sanitarie ed abitative paritarie rispetto ai cittadini autoctoni, realizzazione di spazi di accoglienza autogestiti, apertura di tavoli di trattative con le autorità centrali per tutte le controversie che riguardano il rapporto fra enti locali, questure, prefetture, e le associazioni di migranti e antirazziste. Ė necessario che nelle liste elettorali ci sia spazio per cittadini immigrati, prescindendo dalla logica, tutta autoctona, della rigida ripartizione per correnti.

 Quello che deve emergere in ogni programma, come segnale di netta rottura con il passato, è che non esiste alcun nesso fra le politiche relative all’immigrazione e i problemi di ordine pubblico e di sicurezza. Le prime sono questioni sociali che vanno affrontate con i criteri di un nuovo e più efficiente welfare garantito dalla pubblica amministrazione, gli altri sono problemi che non sono riconducibili ad un generico “essere stranieri”, ma ad ipotesi di reato che valgono in ugual misura per ogni cittadino. Si tratta di una impostazione politica e culturale diversa che non ignori i problemi aperti dalla esistenza di condizioni di marginalità o di devianza, ma che si ponga l’obiettivo di risolverli e non di scegliere la facile soluzione di rinchiudere in ghetti o prigioni i possibili elementi che li scatenano. Il partito su questi punti dovrà essere chiarissimo con i nostri eventuali alleati di governo locale: non possono esistere diritti garantiti solo ad alcuni e non esigibili da altri, solo perché non nati in Europa o perché non in possesso delle credenziali, imposte dal sistema dello sfruttamento, per risiedervi. Non si tratta di maggiore o minore moderatismo quanto dell’assumerci la responsabilità di essere elemento propulsivo di una società che tende ad accogliere i cambiamenti spesso molto più in fretta di quanto la classe politica sia in grado di percepire.

Ma al di là delle scadenze prossime si pone anche l’esigenza di caratterizzare il nostro lavoro pensando ad alcune parole chiave, parole-obiettivo a lungo termine: formazione, inchiesta, radicamento nel territorio.

1) Con il termine formazione crediamo di cogliere non tanto una funzione pedagogica a volte necessaria, ma un passaggio culturale che investa tutto il partito. Tanto nel quotidiano agire di alcuni circoli, quanto nel parlare di alcuni dirigenti si avverte una carenza strutturale in materia. Manca un linguaggio per definire le nuove cittadinanze, mancano i percorsi per superare quella sorta di “razzismo strutturale” di cui è intrisa la cultura europea e che in parte coinvolge anche noi. Pensare a momenti periodici di formazione e informazione, che scardinino stereotipi e pregiudizi, maturati magari anche in buona fede, è un atto improrogabile. Pensiamo ad incontri che, oltre a definire le cause molteplici e non riassumibili dei processi migratori, destrutturino l’immagine miserabilista del povero migrante a cui dare un semplice supporto caritatevole.

Sono maturi i tempi, e questo sono soprattutto le migranti e i migranti a chiederlo, per cui chi si professa antirazzista e aperto ad una nuova società, sperimenti un confronto politico con i migranti come soggetti politici. Incontri in cui si affrontino tematiche che possono connettere lotte combattute sullo stesso fronte: per il diritto alla casa, per una sanità e una scuola pubblica, contro la precarietà o contro la guerra permanente, per condizioni e contratti di lavoro rispettosi della dignità di chi lavora. Un lavoro lungo e complesso ma che potrebbe portare buoni frutti.

2 ) Per inchiesta, termine più volte abusato, intendiamo un lavoro condotto da un gruppo che si autodetermina e che provi a rispondere ai due interrogativi emersi a Bologna lo scorso anno. Cosa possono dare gli immigrati al partito? Cosa può dare il partito agli immigrati? Per capirlo bisogna a nostro avviso innanzitutto percepire meglio quale è l’immagine predominante che del partito hanno gli immigrati e che degli immigrati hanno i compagni del partito. Un lavoro su due binari che necessita di un sostegno politico ed economico degli organi dirigenti e che - come una vera inchiesta deve essere - non parta da risultati prestabiliti. Deve contenere domande anche scomode, deve portare chi ci si impegna ad acquisire e a mettere a disposizione degli altri, un nuovo patrimonio di conoscenze, sollevando nel contempo necessari dubbi e perplessità. Ma deve anche servirci ad aprire nuove brecce, tanto nel tessuto migrante quanto in quello del partito, per costruire più realistici canali di comunicazione. Al più presto, coloro che sono interessati e disponibili, debbono definire un progetto di lavoro da discutere e da far partire sfruttando anche le occasioni di incontro offerte dalle scadenze congressuali.

3 ) Il radicamento nel territorio non può che essere - non certo in maniera meccanicistica - frutto del lavoro di inchiesta e di formazione insieme ad una presenza costante nei momenti di conflitto e di confronto. Con un cauto ottimismo si possono immaginare le realtà territoriali che lavorano, al di là delle contingenze, per realizzare simili percorsi, senza darsi delle scadenze immediate, ma senza neanche adagiarsi su un presente che non è mai statico. La prospettiva che potrebbe aprirsi con le prossime stagioni politiche, anche in presenza di un “governo amico” - forse a maggior ragione - deve averci come interlocutori capaci e rappresentativi. Qui sta forse la scommessa e il futuro della commissione più che nei suoi aspetti formalizzati. Ancora, il radicamento nel territorio deve riguardare anche, forse soprattutto, i rapporti con i migranti che vivono nel territorio: i rapporti stabili con le associazioni e le comunità, l’attivazione di sportelli o la collaborazione con sportelli attivati da altre strutture, la presenza di immigrati iscritti, la loro partecipazione ai circoli, alla federazioni e alle commissioni, l’organizzazione di iniziative di lotta congiunte, ecc. Sarebbe necessario che ogni federazione facesse un censimento su questi argomenti e i dati fossero centralizzati nel dipartimento.

E da ultimo, anche se proviamo a ragionare in termini di medio e lungo periodo, sappiamo tutti il carattere spesso quasi esclusivamente emergenziale del nostro intervento. In tali emergenze spesso i pochi compagni e le poche compagne impegnati non hanno goduto dell’appoggio e dell’apporto necessario: chi nel partito si è mobilitato - pensiamo soprattutto alla scorsa estate in Sicilia - si è trovato da solo, chi lo ha fatto fuori dal partito ci rimprovera, spesso non a torto uno scarso impegno nell’emergenza. Se è vero che non si possono accettare queste forme di ricatto è altrettanto inoppugnabile che dal nostro partito ci si aspetta sempre di più rispetto agli altri soggetti politici. È giusto: aver scelto di far parte in maniera totale del movimento impone anche queste responsabilità, sta a noi decidere se mantenerle o rigettarle.