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Fuori la guerra dalla nostra storia

Publie le lunedì 22 dicembre 2003 par Open-Publishing

Storia Lidia Menapace

«... a predicar la pace e a bandir la guerra, la pace tra gli oppressi, la guerra agli oppressor...», così diceva la canzone anarchica, e gli oppositori germanici della prima guerra mondiale cantavano un inno che si intitolava Krieg dem Kriege! , "Guerra alla guerra". L’opposizione alla guerra e la condanna del militarismo accompagnano strutturalmente le vicende del movimento operaio e del proletariato dalla fine del secolo XIX e per il XX. Sembrando dire che alla guerra ci si deve opporre (non è mai considerata uno strumento come un altro da usare per primi, per scelta): ma non si dice come, persino -sembra- con altre guerre.

In altro territorio culturale, nella chiesa cattolica, continua sotterranea la pressione perché la guerra venga condannata e si torni ai tempi del primo cristianesimo, che rifiutava le armi e la violenza, e si ribalti la storia della cristianità, che - dopo Costantino - invece aveva elaborato la teoria della guerra giusta e ben presto con le crociate quella della guerra santa, in cui i combattenti "caduti" nell’ uccidere i nemici venivano detti "martiri" e andavano subito in paradiso (nulla di nuovo sotto il sole!).

Si faceva strada nello stesso giro d’anni (dopo la prima guerra mondiale, la famosa «inutile strage») un pensiero politico volto alla formazione di strutture capaci di risolvere i conflitti senza far ricorso alle armi: la Società delle Nazioni, con sede a Ginevra, osteggiata da Mussolini perchè gli inflisse sanzioni economiche per l’aggressione all’Etiopia e che Hitler attaccò violando le sanzioni decise contro l’Italia, uno dei funesti passi di alleanza tra i due dittatori.

Per la chiesa cattolica tuttavia nemmeno la condanna della Pacem in terris (la guerra è qualcosa «omnino alienum a ratione», qualcosa del tutto fuori di testa, una pura follia) bastò. Il Concilio Vaticano Secondo ammise ancora, a bassa voce e di straforo, il concetto di guerra giusta, su pressione dei vescovi nordamericani che appoggiavano gli Usa in Vietnam. Idea della "guerra giusta" che il card. Ruini ancora ha enunciato all’inizio della guerra contro l’Iraq, ribadendo che quella era illegale (non approvata dalle N. U.) ma che il Vaticano non era «pacifista». Smentito più volte dal papa che invece inopinatamente ha richiamato i cristiani alla nonviolenza e per la giornata mondiale della pace ha emesso un importante documento di condanna della guerra "senza se e senza ma" (che forse avrà buona stampa e scarsa efficacia come già il suo appassionato appello alla vigilia della guerra in Iraq, disobbedito dai governi di tutti i paesi "cattolici" d’Europa -Ungheria, Polonia, Italia, Spagna, Portogallo - gli stessi che avrebbero voluto mettere le "radici cristiane" nella costituzione europea con stomachevole ipocrisia).

Questa è ormai preistoria: la guerra è solo orrore e non può più essere definita giusta in nessun caso nè può avere una valenza positiva per chiunque voglia, nella terribile pericolosa crisi capitalistica "finale", introdurre processi di alterità rivoluzionaria.

Tale è la mia opinione, suffragata anche dall’ascolto politico che il discorso sull’azione nonviolenta riceve e conserva.

Che cosa è accaduto? sono accadute cose che non si cancellano: la seconda guerra mondiale ha impresso nei popoli e per un po’ anche nei governanti un sentimento di ripulsa, rigetto, indignazione che ha portato agli articoli delle costituzioni postbelliche che appunto «ripudiano la guerra» di aggressione preventiva, e anche quella di «risoluzione delle controversie internazionali» (guerre di risposta o difensive) e alla costruzione di strutture internazionali di prevenzione, direzione mediazione, governo dei conflitti e conservazione della pace, appunto le Nazioni Unite. Naturalmente il processo è insidiato dalla perdita di memoria e da potenti forze interessate alla guerra e in più dal fatto che le strutture internazionali sono incrostate dal potere dei vincitori: la pace non si può fondare sulla vittoria, ma sulla giustizia. Lo si vide nella crisi dopo la prima guerra mondiale quando l’oppressione tremenda esercitata sulla Germania vinta fu un potente acceleratore della crisi politica e sociale da cui ebbe morte la repubblica di Weimar e vita il nazismo; e dopo la seconda quando le potenze vittoriose posero se stesse come membri permanenti dotati di diritto di veto al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Anche il fatto che a differenza della Società delle Nazioni ospitata in un paese neutrale, la Svizzera, l’Onu è sul suolo degli Usa e dipende dai finanziamenti americani vulnera profondamente l’istituzione e bisognerà appunto scrostarla dai residuati bellici (il diritto di veto, i membri permanenti, il prevalere del consiglio sull’assemblea e l’amministrazione della giustizia da parte dei vincitori come fu a Norimberga).

Il fatto è che dopo Auschwitz e Hiroshima si sa che dottrine violente provocano tremende forme di sterminio e che se non si risanano le fonti strutturali tali orrori possono ripetersi, persino da parte di chi ne fu vittima, e l’uso di armi di sterminio dice che anche i vincitori che hanno "ragione" possono abusare del loro potere. Poichè a nessuna violazione della legge o accumulo di "colpe" è risposta accettabile la tirannia e a nessuna violazione di diritto è risarcimento una atomica: questi strumenti sono diventati non agibili inefficaci irragionevoli e disumani.

Mettersi in gara di armamenti è follia pura, pensare di gareggiare militarmente con gli Usa significa esporsi alla sconfitta più distruttiva oppure diventare come gli Usa per vincerli. In ogni caso una politica di violenza militare non serve contro il neoliberismo, anzi ne è alleata.

E dunque storicamente necessario, col senso stringente che ha questa parola, cercare e trovare altre strade per frenare, lottare, togliere gli squilibri, le oppressioni, le violazioni del diritto e soprattutto per avviare la costruzione dell’ "altro" mondo possibile che molti e molte vedono possibile, credono possibile, si impegnano per rendere possibile..

Per avviare un processo che metta la guerra fuori dalla storia, come abbiamo cominciato a gridare al tempo della prima guerra del Golfo, sono importanti molte cose, anche superare gli automatismi mentali che rinviano alla guerra, alle armi, alle pratiche belliche appena si profila un conflitto. Ricordo che una volta - alcuni anni dopo la fine della seconda mondiale - ad Einstein fu chiesto con che armi si sarebbe combattuta la terza, e anche lui cadde negli automatismi e rispose: «La terza non so, ma la quarta con le fionde», una risposta terribile, arresa, quasi conquistata dalla ineluttabilità della guerra: la ragione suggerisce invece di rispondere che la terza non deve poter avvenire perchè si viva senza paura nemmeno delle fionde.

Se dunque decidiamo di non volere nessun ricorso alla guerra, bisogna fare alcune operazioni: una molto semplice, priva di costi e usabile in ogni momento è disinquinare il linguaggio, soprattutto quello politico dal simbolico militare e bellico. Basta dunque col parlare di "tattica, strategia, schieramento, alzare la guardia, abbassare la guardia, scendere in campo, tenere le posizioni, fare battaglie, occupare casematte, fare guerra di movimento, guerra di posizione": se ci si bada, si vedrà che il nostro parlare è tutto intessuto di parole di guerra e - come si sa - le parole agiscono sulle nostre connessioni cerebrali e ci riempiono di un immaginario tutto di guerra come se la guerra fosse l’unica attività: non si ha idea quanto il piccolo sforzo di usare altre metafore e provare a "tessere, costruire, cucinare coltivare, mietere, foggiare" giovi ad estendere un poverissimo lessico e ad allargare gli orizzonti. Invece di obiettivi ci sono mete, invece d battaglie lotte o gare, invece di duelli confronti, invece di strategie buone pratiche e via dicendo: si possono inventare giochi in proposito o fischiare chiunque usi ternini di guerra. E’ certo che molti politici non arriverebbero al termine della prima frase: se non parlano di tattica, strategia e schieramento non sanno che dire.

La cosa più importante è però di addestrarsi all’uso di altri strumenti, di altri mezzi (non "armi! "), strumenti che siano coerenti con il fine della pace scelto: la pratica, la tradizione, la cultura dell’azione nonviolenta elaborata ormai da tempo e consolidata nelle lotte del movimento operaio e delle donne può estendersi e farci fare un passo davvero oltre la priestoria delle umane forme di convivenza. Il salto è di inimitabile portata, una vera rivoluzione copernicana, un mutamento di orizzonti percorsi relazioni. Se ne può e deve parlare a lungo, non sono cose che si improvvisano e pongono molte domande alle quali le risposte possono essere elaborate insieme da molti e molte e anche risultare molto differenziate. L’azione nonviolenta non è uniforme, non è in uniforme, è creativa, imprevedibile, mutevole, conta sulla sorpresa usa l’intelligenza e la solidarietà individuale e collettiva, è intransigente dal punto di vista etico e comprensiva verso le difficoltà di ciascuno.

Affrontare dunque una scelta di azione nonviolenta e addestrarsi ad essa è una rivoluzione culturale vera e una innovazione teorica nel pensiero della sinistra marxista assolutamente rilevante. Si potrebbe ripetere la famosa frase di Marx che tutto ciò pone fine alla prestoria dell’umanità e avvia la storia umana. Non è una esagerazione, essere nonviolenti non è "spontaneo"; anche le persone più miti, magari addirittura timide o paurose "spontaneamente" producono scenari storico-politici infestati dall’infezione del militarismo. Che della guerra e del suo volto imperialista è il brodo di coltura, l’humus, l’alimento. Oggi i militari sono anche colti, hanno molti soldi e pochi controlli, sono committenti pregiati e privilegiati da molti istituti di ricerca e dai dipartimenti universitari perchè chiedono la preparazione di tecnologie costose, ma molto facili da progettare perchè non prevedono riuso, sono destinate ad essere usate una volta scoppiando, uccidendo dall’alto, deperiscono rapidamente, non debbono tenere conto dei danni alla salute nè all’ambiente, rappresentano lo spreco più irrazionale e il dispendio di energie e risorse più disumano. Come dicevamo nel 1995 a Pechino a conclusione della quarta conferennza mondiale dell’Onu sulla condizione delle donne sul pianeta: «Le spese militari sono la principale causa della povertà nel mondo e in cambio non danno nemmeno sicurezza». Infatti trovano posto in un universo tetro, di gare distruttive e in una spirale nella quale la guerra fomenta il terrorismo che la sostiene e induce i governi a distogliere risorse da impegni di pace (scuola cultura sanità servizi lavoro casa) per fornire armi e salari a chi è addetto alla "sicurezza". E produce anche restrizioni di libertà appunto per una "sicurezza" che non può nè garantire nè agire.

Qualsiasi azione capace di interrompere questa follia è utile, purchè non sia contaminata dalla stessa follia: se la rivoluzione è il movimento reale che muta lo stato delle cose presenti, essa è innanzitutto mutazione dei criteri, mezzi, metodi dell’assetto che si intende rivoluzionare: non sarà mai possibile costruire un "altro" mondo con i materiali sanguinolenti di questo.

http://www.liberazione.it/giornale/031221/LB12D680.asp