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Giusto Catania : "Ho visto l’orrore dei lager in Libia dove l’Italia deporta i migranti"

Publie le sabato 23 aprile 2005 par Open-Publishing
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Dazibao I "senza" - immigrati Governi

Il deputato europeo Giusto Catania ha visitato il Cpt di Fellah, a Tripoli. "Dalle porte escono grida e invocazioni di aiuto"

di Maria R. Calderoni

Ci vorrebbe Salgado, il fotografo degli ultimi della terra, la visita a questo Cpt libico potrebbe essere materia per il suo obiettivo accusatore. Ci chiama Giusto Catania da Bruxelles, vuole informare "Liberazione" sulla sua visita laggiù. Come membro del Parlamento europeo, insieme ad altri nove deputati (nell’ambito della delegazione per i rapporti coi Paesi del Maghreb, ivi compresa la Libia) martedì scorso ha potuto metter piede in quel luogo. Dopo molta insistenza, dopo molto tergiversare. Il suo racconto di testimone ufficiale non è bello. E più che un racconto, è una drammatica denuncia.

«Il Centro è praticamente situato nel cuore di Tripoli, in mezzo alla città, nella zona di Fellah, e Fellah si chiama anche lo stesso campo. Siamo arrivati in modo del tutto ufficiale e formale, accompagnati dalle autorità libiche. Impressione inquietante a prima vista. E’ un campo blindato, tenuto sotto stretto controllo da uomini in divisa e armati, non so se poliziotti o militari».

Un edificio squadrato, rettangolare; attraverso il cancello di ferro i nove visitatori vengono fatti entrare in un atrio dalle dimensioni di un campo di pallavolo, intorno al quale ci sono le celle.

«Le celle di un carcere vero e proprio. Con le porte di ferro e lo sportellino ad altezza d’uomo, le finestre alte e sbarrate, l’oscurità garantita dalle pesanti ante. In questo luogo finiscono gli immigrati clandestini sorpresi in territorio libico; in un luogo come questo finiscono anche quelli sbarcati a Lampedusa e rispediti "a casa". Questo campo - cioè lager, uso la parola giusta - è l’approdo obbligato del clandestino africano sorpreso in Italia e "rimpatriato", come ipocritamente dicono. Lo voglio affermare. Nella mia attività politica ne ho visto tanti di cosidetti centri di accoglienza in Italia, ma questo è assolutamente il peggiore. In tutto e per tutto è un carcere. Un vero carcere».

Clamori, grida, invocazioni di aiuto, oggetti che sbattono contro le porte, disperati sguardi dietro i pertugi sbarrati. La presenza della delegazione fa scattare la protesta collettiva e clamorosa.

«Nelle celle non ci hanno permesso di entrare, l’agitazione è fortissima e le guardie hanno temuto il peggio. Ma ci siamo resi conto: in venti, trenta rinchiusi insieme, in un camerone senza aria e senza servizi igienici, le grida ci raggiungono: "stiamo male, fateci uscire da qui, aiutateci, vogliamo tornare a casa, qui non ci danno da mangiare". Ma i nostri accompagnatori ufficiali non si impressionano. "Raccontano bugie, non gli facciamo mancare né cibo, né cure, vogliono solo fare baccano per attirare la vostra attenzione". Però ciò che vediamo e sentiamo - qui, adesso, davanti a noi - purtroppo li smentisce».

Dentro questo carcere-sorvegliato speciale alle soglie del deserto, sono rinchiusi, al momento della visita dei nove parlamentari europei, 105 disgraziati esseri umani. Tutti immigrati clandestini sorpresi e arrestati in Libia, nessuno tuttavvia proveniente dai rimpatri made in Italy. Tutti africani.

«Lo dicono, lo gridano mentre fanno cadere suppellettili e tappetini da qualche sportello divelto: vengono dal Sudan, dalla Nigeria, dalla Liberia, dall’Etiopia, dal Ghana, dal Congo, dalla Somalia. Sono tutti giovani, tutti al di sotto dei trent’anni, hanno attraversato il deserto, centinaia di chilometri in auto e spesso a piedi, fuggendo dai loro paesi in guerra. In gran parte sono perseguitati, scappati in cerca di asilo, come rifugiati politici».

Asilo che non gli è concesso. Secondo Catania, qui c’è il nodo - e anche lo scandalo - della drammatica odissea degli immigrati in Libia. «Anche a questo proposito, le autorità libiche smentiscono: qui non ci sono rifugiati politici, dicono, ci sono solo immigrati illegali arrivati in cerca di un lavoro, di una sistemazione qualsiasi. Clandestini e basta, clandestini fuori-legge. Ma il punto è proprio questo: in Libia non esiste, non è riconosciuto, lo status di rifugiato politico e nessuno dei prigionieri rinchiusi in posti come il Fellah, può nemmeno richiederlo. Ciò perchè la Libia non ha firmato la Convenzione di Ginevra».

E nemmeno ha intenzione di firmarla? «E’ così, nemmeno ha intenzione di firmarla. E qui si pongono due diverse questioni politiche non da poco. La prima discende dal fatto che questi centri, e tutto l’insieme della politica in tema di immigrazione in territorio libico, sono gestiti e finanziati coi soldi della Comunità europea (e particolarmente dell’Italia: lo stesso funzionario libico che ci accompagna afferma che il nostro governo fornisce alla Libia aerei, elicotteri, imbarcazioni destinati al controllo delle frontiere). Tutto questo alla luce del sole, tutto in base agli accordi sottoscritti. E proprio qui nasce la seconda questione. Perchè questi accordi sono sottoscritti, e finanziati, "nonostante", appunto, la Libia non riconosca e non abbia firmato la Convenzione di Ginevra sui diritti del rifugiato politico. In sostanza, accordi che non brillano, alla luce del diritto internazionale».

Con la conclamata complicità della civile Europa. «E’ l’Acnur (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) a denunciare di non avere alcun genere di rapporto con il governo di Gheddafi. Diventa quindi addirittura paradossale che l’Ue (e l’Italia) abbiano così intensi rapporti politici ed economici, in tema di immigrazione, con un Paese che per legge impedisce persino di poter accedere alla stessa richiesta di status di rifugiato. Scandaloso, anche sullo stesso piano, ripeto, del diritto internazionale».

La Libia come guardiano delle preziose coste occidentali. Di fatto, «uno stato-cuscinetto, che funziona in base ad accordi-capestro di riammissione, ufficialmente voluti e finanziati dall’Europa».

Muoiono, dobbiamo saperlo, sotto questi accordi con marchio Ue. Muoiono nel deserto - di fame, di sete, di stenti - quando coi nostri voli charter li rimpatriamo (che eufemismo) via Libia. Muoiono nel deserto, di abbandono. Il nostro.

Ultime grida, dal Fellah. «Ci raggiungono anche pianti di donne, scopriamo adesso che rinchiuse tra loro ci sono anche due bambine egiziane, anni 14-15. Lo scopriamo, ma dobbiamo lasciarle lì».

http://www.liberazione.it/giornale/050422/R_APRE.asp

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