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IL VIAGGIO A CUBA : e Wojtyla ci mise una croce sopra

Publie le mercoledì 13 aprile 2005 par Open-Publishing

Dazibao Religioni America Latina

Quell’incontro inedito fra Giovanni Paolo II e Fidel Castro che regalò all’Avana la solidarietà della chiesa cattolica. Un evento che pochi hanno ricordato

di GIANNI MINA’

Solo tre mesi fa Giovanni Paolo II, ricevendo Raul Roha, il nuovo ambasciatore cubano presso la Santa Sede, figlio di un diplomatico che ha fatto epoca nella faticosa storia della rivoluzione, aveva esplicitamente riaffermato l’ingiustizia e l’indecenza dell’embargo che da più di 40 anni i governi degli Stati Uniti hanno applicato, senza alcuna ragione, contro l’isola, e si era augurato una prossima cancellazione di questa sanzione unilaterale e ormai fuori della storia. Di quelle parole di critica e di rifiuto in Italia solo il manifesto e la rivista Latinoamerica avevano dato notizia, perché anche Giovanni Paolo II "il Grande", quando tuonava contro la scellerata guerra in Iraq o la ferocia dell’economia neoliberista, o esprimeva solidarietà a Cuba, veniva nascosto nelle pagine dei giornali o tra le notizie televisive meno importanti, insomma censurato.

E questo atteggiamento non è cambiato nemmeno quando, nei giorni della sua agonia e della sua morte, accompagnata da un’alluvione di articoli sul suo pontificato, è stata elusa, quasi dimenticata o al massimo citata di sfuggita senza nessun tipo di approfondimento, la sua visita a Cuba dal 21 al 25 gennaio del 1998.

Una visita di cinque giorni che invece ebbe risvolti epocali per i molti significati, per i temi e i toni toccati tanto da Fidel Castro nei suoi interventi, quanto dal Papa nelle nove omelie pronunciate nell’isola della revolución, e che hanno prodotto cambiamenti nella presenza della chiesa cattolica nel paese, impensabili solo una decina di anni fa.

Accadimenti certi e inconfutabili che hanno, in vari momenti, rivelato una palese solidarietà verso Cuba da parte del Vaticano, estranea a molti settori perfino della sinistra europea e italiana.

Nell’aprile del 2003, mentre l’Unione Europea su proposta dei governi di Aznar e Berlusconi votava delle sanzioni a Cuba, che aveva subito tre dirottamenti di aerei civili in due settimane e aveva reagito a questa "strategia della tensione" innescata dagli Usa, con la fucilazione di tre degli 11 sequestratori del ferry boat della baia dell’Avana, mons. Angelo Sodano, segretario di stato della Santa Sede, aveva dichiarato, per esempio, al Corriere della Sera: «Vaticano continua ad aver fiducia nella capacità del governo di Fidel Castro di condurre Cuba a una compiuta democrazia».

Più recentemente, dopo il manifesto degli intellettuali di tutto il mondo contro il tentativo degli Stati Uniti di far censurare ancora una volta Cuba dalla Commissione Diritti Umani dell’Onu, mons. Giorgio Lingua, incaricato dalla Segreteria di Stato di seguire i rapporti con Cuba, ha dichiarato a una cerimonia: «Esistono forti pregiudizi ideologici contro l’isola, che impediscono di vedere e riconoscere le conquiste sociali finora realizzate. L’eccessiva pressione esterna su Cuba può originare misure esageratamente repressive per difendersi da attacchi esterni». Un’analisi che ha fatto commentare al neo ambasciatore cubano presso la Santa Sede: «Il Vaticano è sempre meglio informato di quello che avviene da noi ed è capace di un’analisi più articolata di quella della sinistra europea».

Nessuno ha ricordato

Ho pensato a queste parole mentre cercavo invano nella grande stampa un ricordo analitico della storica visita di papa Wojtyla, una visita preparata con cura dal cardinale Roger Etchegaray, un vigoroso basco-francese, che era stato cardinale a Marsiglia e a Parigi e che per conto del Papa aveva svolto missioni in punti caldi del mondo, anche in paesi dal difficile dialogo con la religione cattolica. Era stato in Iran, in Iraq, in Libano, in Sudafrica, in Birmania, in Indonesia, in America centrale, in Jugoslavia e più recentemente in Niger, Liberia e Rwanda. Così Etchegaray era andato nove volte a Cuba per stabilire i dettagli di un incontro che non poteva permettersi malintesi, e alla fine l’incontro era avvenuto. Ricordo questo evento passo passo perché, con la mia troupe televisiva, per il documentario Il Papa e Fidel (comprato e mai trasmesso dalla Rai e dal quale avrei ricavato un libro dallo stesso titolo) mi fu permesso di filmare momenti dai quali i grandi network erano esclusi. Mi fu possibile così verificare giorno dopo giorno il grande rispetto e la simpatia che era nata fra questi due protagonisti della storia più recente, l’uno e l’altro controversi per ragioni diverse. E non mi apparve più sorprendente che due anni prima le parole di Giovanni Paolo II e Fidel Castro alla Fao, sulle ragioni della fame nel mondo, sul rifiuto a ogni tipo di embargo, sull’invito a cancellare il debito estero dei paesi poveri, combaciassero.

Il Papa era venuto a Cuba per rafforzare la Chiesa cattolica nell’isola e lo aveva fatto a Santa Clara parlando della famiglia, a Camaguey dei giovani, a Santiago di Cuba della patria e all’Avana della missione della Chiesa. La società socialista l’aveva criticata apertamente a Santa Clara, leggendola come una società che divide la famiglia, riduce la libertà d’espressione e gli spazi dell’azione pastorale, mostrando una apparente indifferenza verso le conquiste sociali, uniche nel continente. «Privo di chiavi di lettura per riconoscere l’originalità dell’esperimento sociale cubano, che incontestabilmente influenza il riscatto ora in atto in America latina, Karol Wojtyla» - ha scritto in seguito Frei Betto - «aveva visto il socialismo cubano con le sue lenti polacche, come se l’isola fosse un paese dell’est europeo». Ma visitando il mondo del dolore nel santuario di San Lazaro, all’Avana, alla vigilia della sua partenza, Giovanni Paolo II già aveva riconosciuto che «la sanità era davvero un’importante conquista in mezzo alle difficoltà che il paese era costretto a vivere». Poi, l’indomani, le parole di condanna del capitalismo neoliberale a Plaza de la Revolución e, all’aeroporto José Marti, dell’embargo quarantennale all’isola («Le misure economiche restrittive imposte dall’estero, ingiuste ed eticamente inaccettabili»), avevano segnalato l’importanza che l’esperienza vissuta aveva avuto nella sua sensibilità.

Fidel Castro, da parte sua, invitando Giovanni Paolo II aveva cercato e trovato una legittimazione a 40 anni di lotta, pur fra tanti errori o intransigenze, per liberarsi da un insensato assedio politico e psicologico voluto dagli Stati uniti. «La semplice presenza del Papa - ha rilevato Manuel Vázquez Montalbán, col quale condividevo quel reportage - diventava un elemento di legittimazione. Il Papa poteva stare a Cuba, poteva parlare a Cuba e la chiesa cattolica poteva criticare la rivoluzione come aveva fatto a Santiago, aspramente, il vescovo Pedro Meurice. Per strada si svolgevano manifestazioni religiose e perfino la maggior parte dei cubani, che sono seguaci della santería e dei culti portati nel paese dagli schiavi africani, erano stati convinti da Fidel in due pedagogici interventi televisivi e dal partito a riempire le piazze e ad ascoltare le omelie del Papa e dei vescovi. Tutto questo si è trasformato in un messaggio positivo per Castro, che da tempo aveva bisogno di sostituire l’immagine di una rivoluzione armata con quella di una rivoluzione culturale. Una strategia che gli può consentire, come sta facendo, di gettare dei ponti verso altri movimenti che vadano nella stessa direzione: il neoindigenismo critico latinoamericano, le popolazioni maya in resistenza nel Chiapas, la nuova sinistra continentale che sta uscendo dalle rovine degli anni 70-'80. In questo senso gli ha fatto comodo annettere anche parte del bizzarro pensiero del Papa polacco che, negli ultimi tempi, ha fatto sue molte tesi proprie della Teologia della Liberazione, una volta combattute, ma ora, nel precario contesto latinoamericano, ritenute più appropriate delle chiusure di un tempo». L'obiettivo del vecchio leader Si è capito che l'obiettivo del vecchio leader era stato raggiunto quando la mattina del 25 gennaio a Plaza della Revolución, Karol Wojtyla, il Papa che aveva sconfitto il comunismo aveva condannato con veemenza, chiamandolo con il suo nome, il «neoliberismo capitalista», che fino a quel momento aveva definito «capitalismo selvaggio». Anche Giovanni Paolo II, però, in quel viaggio ha raggiunto il suo obiettivo, che era non solo il rinascimento del cattolicesimo a Cuba, ma anche dare a questa fede un nuovo impulso in tutta l'America latina. E questo risultato poteva essere raggiunto solo partendo dall'isola della Revolución. Perché, per quanto sorprendente possa sembrare, solo una nazione latinoamericana che è riuscita ad assicurare i diritti fondamentali di sopravvivenza a tutti i cittadini, poteva essere un esempio credibile del riscatto auspicato per i popoli oppressi del continente. Un riscatto che la Chiesa di Roma, finalmente coerente con l'opzione per i poveri del Concilio Vaticano II, aveva nuovamente deciso di perseguire in America latina e in quello che, con imbarazzante supponenza, viene chiamato il «Terzo Mondo». C'era infatti un territorio di fede da riconquistare, che l'efferata logica della politica scelta dagli Stati uniti negli anni70, con l’intento in teoria di combattere la malapianta del comunismo, aveva disseminato di tante inquietanti nuove chiese evangeliche o pentecostali, sette, confessioni, culti fatti proliferare per arginare o combattere la chiesa di base (ben presto ispirata dalla Teologia della Liberazione), che si schierava in difesa dei diritti calpestati delle masse più diseredate. Erano gli anni della presidenza di Lindon Johnson, dopo l’assassinio di Kennedy e successivamente dell’ascesa e della vittoria del repubblicano Nixon, gli anni del Cointelpro, il famigerato Counterintelligence Program, un piano messo in atto dal discusso direttore dell’Fbi dell’epoca, Edgar Hoover, e che prevedeva una strategia articolata di «azioni repressive coordinate da parte dello stato nei confronti di tutto il movimento di protesta degli Stati uniti, bianco e nero, pacifista e violento, radicale e rivoluzionario». In questa strategia era anche considerata la possibilità di dare spazio, soldi e appoggio a culti o sette come quella degli arancioni del reverendo Moon, cha un giorno arrivò a comprarsi uno dei quotidiani della capitale degli Stati Uniti, il Washington Times, per poter meglio condizionare le coscienze dei cittadini più fragili o meno informati.

Una commissione d’inchiesta del Senato americano scrisse riguardo al Cointelpro: «Molte delle tecniche usate sarebbero intollerabili in una società libera anche se tutti i sospettati fossero stati coinvolti in una attività violente, ma il Cointelpro è andato molto al di là di questo. La premessa fondamentale non dichiarata era che un’agenzia delegata a far rispettare la legge ha il compito di fare qualsiasi azione necessaria per combattere minacce anche solo percepite come pericolose per l’ordine sociale e politico esistente».

Le inquietanti chiese nate allora e proliferate nel tempo, fino a che alcune di loro sono diventate, negli Stati uniti, la macchina elettorale di George W. Bush, sono il mostro che la società americana si è cresciuta nel seno e che ora rappresentano spesso un pericolo sociale molto più destabilizzante di qualunque terrorismo. E così nel continente centro e sudamericano. I cattolici di base però non si sono mai arresi e, ben presto, hanno trovato una teorizzazione pratica e coraggiosa del loro modo di vivere la fede nel pensiero dei teologi della liberazione.

Questi filosofi della Chiesa, per anni vissuti come un allarme, se non proprio come un pericolo, dalla parte più conservatrice del potere vaticano, hanno visto così, nei giorni di Cuba, improvvisamente riconosciuti e fatti propri dal Papa polacco il loro approccio nei confronti delle sofferenze dell’umanità più mortificata in America latina, la loro analisi delle cause e delle motivazioni di questo sfruttamento e le loro proposte per lenire o combattere le ingiustizie. Nell’omelia pronunciata la mattina del 25 gennaio `98, durante la messa di Plaza de la Revolución, dopo aver criticato lo scontro ideologico come metodo che causa la disunione, il Papa infatti, disse: «D’altra parte risorge in vari paesi una forma di neoliberismo capitalista che subordina la persona umana e condiziona lo sviluppo dei popoli alle forze cieche del mercato, opprimendo dai suoi centri di potere i paesi meno favoriti con gravami insopportabili, così, in qualche caso, si impongono alle nazioni, come condizioni per ricevere nuovi aiuti, programmi economici insostenibili. Si assiste, nel concerto delle nazioni, all’esagerato arricchimento di pochi a spese del crescente impoverimento di molti, di modo che i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri».

Una riflessione amara, nel solco del pensiero della Teologia della Liberazione, che riempì il cuore dei tanti sostenitori di questa tendenza presenti quel giorno all’Avana.

(g.mina@giannimina.it)

http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/12-Aprile-2005/art89.html