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L’Eurasia? E’ un mito reazionario

Publie le mercoledì 13 luglio 2005 par Open-Publishing

Dazibao Europa Partito della Rifondazione Comunista Parigi

de Franco Ferrari

Un concetto dovrebbe essere chiaro a chi legge l’articolo di Sorini pubblicato da Liberazione del 29 giugno. L’”Eurasia” è un mito reazionario. Ogni tentativo di riciclarlo con un volto di “sinistra” è destinato inevitabilmente a scontrarsi con la sua essenza politica e teorica. Esiste soprattutto in Russia, e trova propugnatori anche in altri Paesi, un movimento “eurasista”. In Italia esce da qualche tempo una rivista che si intitola per l’appunto “Eurasia”, che nasce per iniziativa di ambienti di estrema destra che oggi si propongono di “superare” le “vecchie” contrapposizioni di destra-sinistra, attorno al comune rifiuto dell’impero americano.

Non a caso si trovano pubblicati dagli stessi ambienti (Claudio Mutti e la sua casa editrice “All’insegna del veltro”, per dirne uno) testi del segretario del PC della Federazione Russa, Zyuganov, nel tentativo di suggerire l’esistenza di un fronte trasversale che si ritrova attorno al tema-mito dell”Eurasia”. Attorno all’”Eurasia” si ritrovano nuovi sostenitori di vecchi temi etno-nazionalisti, non privi di elementi antisemiti, che criticano la politica imperialista degli Stati Uniti, ma lo fanno per contrapporre al capitalismo una restaurazione reazionaria di società fondate sulla comunanza di sangue e suolo.

Dov’è che queste idee reazionarie trovano un punto d’incontro con settori di sinistra e, in qualche caso, comunisti? Nella visione “campista” affermatasi con la guerra fredda. Il mondo, -teorizzava Zdanov per conto di Stalin, nella riunione di fondazione del Cominform - è diviso tra il campo della guerra, guidato dagli Stati Uniti, e il campo della pace, guidato dall’Unione Sovietica. Questa concezione portava le forze comuniste che guardavano all’URSS, a subordinare le lotte sociali e politiche al confronto tra Stati. Il conflitto di classe veniva spostato sul terreno delle politiche di potenza. Sulla base di questa impostazione molti partiti comunisti furono indotti a sostenere regimi reazionari, se questi mantenevano rapporti diplomatici con l’Unione Sovietica e una qualche autonomia dagli Stati Uniti. Cito per tutti l’esempio dell’atteggiamento morbido dei comunisti argentini nei confronti dei regimi militari di Videla e soci, dovuto al fatto che questi vendevano grano all’Unione Sovietica.

In settori della sinistra comunista e anticapitalista emerge a volte una nostalgia del “campo”. Comprensibile laddove si tenga conto che quella divisione del mondo consentiva anche un certo spazio di manovra ad esperienze progressiste, ma ormai del tutto anacronistica. Tanto più che manca l’elemento fondamentale che giustificava quella visione. Al centro del “campo” guidato dall’Unione Sovietica, si trovavano paesi che, nella visione di molti più che nella realtà, stavano costruendo il socialismo. Quindi il conflitto di classe e il processo di costruzione del socialismo venivano “sublimati” nel conflitto tra Stati, ma non cancellati.

Ma oggi non c’è più nemmeno “sublimazione”. Oggi il “campo della pace”, al centro del quale starebbe la fantomatica “Eurasia” di Sorini, è solo una somma di interessi nazionali di ceti burocratico-capitalistici. Quelle esperienze progressiste che ci sono e che cercano uno spazio di autonomia dagli Stati Uniti, ad esempio in America Latina, si troverebbero a convivere con regimi reazionari (l’Iran ad esempio) o mostruose caricature dello stalinismo (come la Corea del nord) mettendo in secondo piano i contenuti di liberazione sociale, culturale e politica di cui devono farsi portatrici e senza i quali non hanno futuro.

Alla base della visione di Sorini ci sono altri due elementi che io vedo come assolutamente negativi. Il primo elemento è “l’implosione” teorica che porta per passaggi progressivi alla trasformazione dell’anti-capitalismo in anti-imperialismo, e dell’anti-imperialismo in anti-americanismo. Ritengo che questa deriva sia una delle possibili ricadute negative nel momento in cui non si affronta fino in fondo il tema della rifondazione di una prospettiva comunista e anticapitalistica, a partire dalla sconfitta inappellabile delle esperienze socialiste del novecento. Caduto il “campo” realmente esistente, occorre ricostruire un “campo” immaginario per supplire in qualche modo al senso di impotenza teorica e politica in cui ci si trova ma con il quale non si vogliono fare i conti.

Il secondo è il recupero acritico di temi “geopolitici”. Nell’articolo di Sorini si cita con evidente approvazione una frase di Gorbaciov nel quale si parla di una “Grande Europa Unita” come fattore “geopolitico”. Bisogna ricordare che la “geopolitica” non è una corrente di pensiero neutrale e che c’entra con il marxismo come i cavoli a merenda. La “geopolitica”, come strumento di analisi del conflitto tra gli Stati, nasce a cavallo tra l’800 e il ‘900 come teoria fortemente condizionata dalle esigenze di espansione colonialista e imperialista delle maggiori potenze europee. E’ vero che ci sono stati e ci sono tutt’ora tentativi di deideologizzare la “geopolitica” e di darne una lettura democratica (mi pare che la rivista “Limes” faccia questa operazione). Ma è altrettanto vero che in qualche ambito della sinistra, si introduca surrettiziamente una lettura geopolitica e quindi reazionaria del mondo e dei conflitti tra gli Stati, facendo finta, consapevolmente o meno, di restare “leninisti”. Compiendo una operazione che va criticata non per eccesso di “ortodossia” leninista, che non c’è, ma per il suo trasformismo culturale. E’ questo trasformismo che consente di presentare l’”Eurasia” come un obbiettivo accettabile da una forza comunista o di sinistra alternativa.

Oltre al mito dell’”Eurasia”, nell’articolo di Sorini continua a serpeggiare un altro mito: quello dell’esistenza di un “movimento comunista internazionale”. Nella sua mappa un po’ sommaria delle posizioni della sinistra europea (il sì critico e il no europeista) viene aggiunta anche la posizione della “maggioranza dei partiti comunisti del continente”. Sono sinceramente incuriosito dal capire come Sorini calcoli questa “maggioranza” a cui forse si richiamano i famosi 40 o 60 partiti da lui evocati al tempo della discussione sulla formazione della sinistra europea. Se escludiamo i gruppuscoli la cui esistenza è nota più a Sorini che ai lavoratori dei rispettivi Paesi di appartenenza, abbiamo i tre maggiori partiti comunisti dell’UE, in termini di voti (Francia, Spagna e Rifondazione) che si riconoscono nella posizione del Partito della Sinistra Europea. Su questo orientamento si trovano altri partiti minori, tra cui anche l’AKEL cipriota e importanti partiti della sinistra alternativa (PDS tedesca, Synaspismos, ecc.). I tre maggiori PC dell’Unione critici o apertamente ostili al Partito della Sinistra Europea hanno assunto posizioni tra loro opposte: a favore del trattato il PdCI, contro il trattato ma non per l’uscita dalla UE il PC portoghese, per lo smantellamento della UE e il ritorno alla sovranità nazionale il PC greco. Né è molto più omogenea la realtà dei partiti dello spazio ex-sovietico, dove i comunisti moldavi, al governo, sono favorevoli a più stretti rapporti con l’Unione Europea e non certo ad inseguire l’”Eurasia”. Sul conflitto che si è aperto in Ucraina nei mesi scorsi fra “filo-russi” e filo-occidentali” i comunisti ucraini, che forse ne sanno un po’ più di noi, non si sono schierati con nessuno dei due campi, dando una lettura della vicenda sostanzialmente diversa da quella che suggerisce Sorini. Francamente mi sembra che la “maggioranza” sopra citata esista solo nell’immaginazione di chi la vuol vedere.

Le differenze che attraversano i partiti comunisti, siano essi “classici” - come direbbe qualcuno - o aperti ad un processo di rifondazione, sono paragonabili se non addirittura superiori a quelle esistenti nell’insieme della sinistra alternativa e anticapitalistica, in tutta la sua varietà. Anche questo conferma l’impraticabilità di imporre schemi ideologici ad una realtà necessariamente, e diciamo pure fortunatamente, in movimento.


Per una "Eurasia" non allineata

di Fausto Sorini

su Liberazione del 29/06/2005

Il No alla Carta Ue e l’uscita dalla subalternità atlantica

Il terremoto politico provocato dalla vittoria dei No nei referendum di Francia e Olanda ha dato un duro colpo al progetto liberista e neo-atlantico di "Costituzione europea" e pone ai comunisti e alla sinistra il tema stringente di un’altra Europa, in termini che trascendono l’orizzonte limitato di una mera rinegoziazione dentro i confini dell’Ue. L’Ue non è un contenitore neutrale, tinteggiabile di destra o di sinistra a seconda delle circostanze o del congiunturale prevalere nel Parlamento europeo di maggioranze di alternanza (di centro-destra o di centro-sinistra), bensì un progetto strutturato, che viene da lontano, di costruzione di un nuovo polo capitalistico e imperialistico sovranazionale, consolidato negli anni da innumerevoli vincoli e trattati (Maastricht, Nizza, formazione dell’euro e di una Banca Centrale Europea, Patto di Stabilità); con una Pesc (Politica estera e di sicurezza comune) che cerca spazi di autonomia dagli Usa dentro le strutture e le compatibilità atlantiche (una sorta di "condominio imperiale" per il governo del mondo). Rispetto a tutto ciò le forze di sinistra critica in Europa hanno espresso tre tipi di approccio.
1) Un primo filone è quello del "Sì critico" alla Costituzione europea che, pur criticandone l’impianto liberista e atlantico, ritiene che la "costituzionalizzazione" di questa Ue, per quanto discutibile, rappresenti comunque un passo avanti nella costruzione di un contrappeso agli Usa, al loro modello sociale, alla loro politica estera e militare aggressiva. E che una crisi di questa Ue, accentuata dalla vittoria dei No, determina un quadro non più avanzato, bensì più favorevole all’egemonia Usa sull’Europa.

Dice Pietro Folena: «Ho votato a favore della Costituzione, con un Sì critico, perché ritenevo che il rischio è che il processo di integrazione si fermi... Oggi il problema è far ripartire il processo costituente su basi nuove... Lavorare ad una vera Costituzione... demandando al Parlamento europeo poteri costituenti... La sinistra nel suo complesso (coloro che hanno sostenuto il No e chi ha espresso un Sì critico) oggi possono lavorare insieme ad una Costituzione più sociale e meno liberale".

Dice Oliviero Diliberto, segretario del Pdci: «I partiti comunisti europei (che sostengono il No alla Costituzione, ndr) sbagliano. La bocciatura inflitta alla Francia è soprattutto una vittoria della linea Usa», che è quella di «far fallire l’unità europea, perché un’Europa politicamente unita e dotata di una propria difesa è in grado di controbilanciare il loro potere. Mentre, da solo, nessun Paese del nostro continente può farlo... Questa Costituzione europea è arretrata... però, visto che non mi sembra esistano rapporti di forza per una rivoluzione del proletariato, era un passo avanti».

Se questo approccio avesse prevalso, avrebbe impedito la vittoria dei No e certamente non sarebbe stato egemone nel fronte del Sì, dove sono del tutto prevalenti i conservatori europei e le componenti più moderate e atlantiste della socialdemocrazia. Nel SI’ critico si ritrovano anche le componenti più moderate della sinistra alternativa e, tra i comunisti europei, il solo Pdci.

2) Un secondo approccio è quello dei fautori del No che contestano i contenuti di questa Costituzione, ma ritengono che una "rinegoziazione" nell’ambito di un "nuovo processo costituente" che investa i popoli e il Parlamento europeo possa - nell’ambito di questa Ue - approdare ad una "nuova Costituzione" avanzata. Dunque, un approccio "emendativo" che - similmente ai fautori del Sì critico - non contesta la "costituzionalizzazione" dell’Ue, con poteri sovranazionali di tipo federale.

Si trovano qui alcuni settori di sinistra della socialdemocrazia europea e buona parte dei gruppi dirigenti del Partito della Sinistra Europea (Se), che ha fatto di questa posizione "interna" al quadro Ue uno dei tratti fondanti del suo profilo programmatico. Più sfumato il giudizio espresso dal Consiglio dei Presidenti della Se (che riunisce i leaders dei partiti membri) e che riflette una non compiuta omogeneità di vedute.

Non si parla di rinegoziazione o di «nuovo processo costituente», si afferma che «l’attuale trattato è politicamente morto» e che «bisogna ridiscutere le fondamenta e gli obiettivi dell’Ue e le sue politiche economiche, sociali, ambientali, istituzionali e internazionali». Il quadro di riferimento strategico resta comunque l’Ue e il tema della Nato non è neppure citato.

3) Un terzo approccio caratterizza la maggioranza dei partiti comunisti del continente e di altre componenti di sinistra anticapitalistica. Esso non si differenzia dagli altri due sull’esigenza, condivisa, di lottare per conquiste parziali all’interno dell’Ue e della dialettica politica e programmatica che vi si svolge.

Il punto è che le forze che si richiamano ad un’alternativa anti-liberista, contrarie alla guerra e all’imperialismo; che vogliono un’Europa unita, autonoma dagli Usa e dalla Nato, fondata non su poteri federali sovranazionali, ma sulla cooperazione di Stati sovrani, amica dei popoli del Sud del mondo, non possono pensare di perseguire compiutamente tali obiettivi dentro il quadro e le compatibilità di questa Ue, ma debbono avanzare un progetto alternativo.

Si continua a discutere come se l’Ue fosse tutta l’Europa. E’ difficile dar torto a Gorbaciov quando sostiene che «l’idea di una Grande Europa Unita (fattore geopolitico di significato planetario) non è risolvibile semplicemente con l’allargamento dell’Ue», cioè per assorbimento o cooptazione; e che «un processo paneuropeo di questa ampiezza non può essere costruito soltanto dalla parte occidentale... L’Europa deve poggiare su due pilastri e nell’iniziativa volta alla creazione di uno spazio economico comune tra Russia, Ucraina, Bielorussia e Kazakhstan vedo il progetto della costruzione del pilastro orientale della casa europea». Per cui si tratta di «dare corso a una svolta davvero pan-europea», che dovrebbe innanzitutto opporsi ad ogni interferenza neo-imperialistica degli Usa, dell’Ue e della Nato negli affari interni dei Paesi dell’area ex sovietica, come invece è avvenuto - pesantemente - nelle vicende di Ucraina, Georgia, Paesi baltici e come sta avvenendo in Bielorussia, Moldavia e nella stessa Russia (a partire dal sostegno di alcuni servizi segreti occidentali al terrorismo ceceno, di cui ci ha più volte parlato con cognizione Giulietto Chiesa).

Un intellettuale britannico vicino a Tony Blair ha scritto che in Europa il bivio è «tra euroasiatici, che vogliono creare un’alternativa agli Usa (lungo l’asse Parigi - Berlino - Mosca - Delhi - Pechino) ed euroatlantici, che vogliono mantenere un rapporto privilegiato con gli Usa». Tony Blair ha espresso con chiarezza la sua linea euroatlantica, quella di «una potenza unipolare fondata sulla partnership strategica tra Europa e Usa»: per dirla con Sergio Romano, «una grande comunità atlantica, dalla Turchia alla California, di cui Londra sarebbe il perno e la cerniera».

Se invece l’Europa vuole uscire dalla subalternità atlantica, deve essere aperta ad accordi di cooperazione e di sicurezza con Russia, Cina, India; e con le forze più avanzate e non allineate in Africa, Medio Oriente, America Latina. Ha scritto bene Samir Amin: «Un avvicinamento autentico fra l’Europa, la Russia, la Cina, l’Asia costituirà la base sulla quale costruire un mondo pluricentrico, democratico e pacifico». Dunque un’Eurasia non allineata, che può rappresentare un interlocutore anche per le forze progressiste delle altre regioni del mondo.