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L’eterogenesi dei fini

Publie le venerdì 22 luglio 2005 par Open-Publishing

Estradizioni Oreste Scalzone

L’eterogenesi dei fini

di Oreste Scalzone

E’ dall’inizio dello sciopero della fame che ho dovuto fare i conti con gli argomenti ansiosi sollevati da persone angosciate. Argomenti, spesso, in parte sentiti come tali, in parte amplificati da una sorta di furbizia benintenzionata, per cercare di smontare un amico peso piuma da quest’idea. Ed è successo così, che per i primi tre o quattro giorni, mi sono trovato crocefisso, senza scampo, messo in mezzo in un luogo aperto come lo spazio Louise Michel. Il paradosso era che la gente per dirmi “ti fa male, ma che fai, lascia perdere”, poi per cercare di smontarmi, usava argomenti veramente risibili, illogici, sofistici fino all’aggressione: non ti sente nessuno, il clima, etc.
E quindi il tono montava e ogni tanto arrivava altra gente, e così per i vari gruppi dovevi fare in tempo reale il riassunto delle puntate precedenti, e a quel punto era già scattato il doppio legame.

Anziché dissuadermi avevano innescato un meccanismo che mi spingeva sul proscenio di un’assemblea-giornale immaginario. A voce sempre più alta, parlando in piedi, estenuante.
E in questa kermesse sono capitati le specie più varie di compagni: un gruppo post rock di Massa Carrara, gli Anarchici, che sta lavorando a un disco sulle prigioni, con quelli della compagnia teatrale del carcere di Volterra, e poi Erri De Luca, e Giovanna Marini che mi chiede di registrare dei pezzi di Lugano Bella... Quindi arriva la fisarmonica: tutto perfetto per uno sciopero della fame. Dopo magari gli altri o le altre, le donne in nero che passano, un po’ melanconicamente, alla spicciolata: si però devi riposarti, devi bere tre litri d’acqua, e nessuno vede che vado sempre a pisciare, devi riguardarti, non devi esporti, non devi andare in giro, ma per dirti questo ti tengono lì a fare una fatica bestiale. Pura eterogenesi dei fini. In piccolo è come se uno deve fare una rivoluzione, ma è talmente difficile, che bisogna farne una chiamandola una rivoluzione della rivoluzione.

Una rivoluzione nella rivoluzione

In Russia era cominciata come un processo sociale nel 1905 con le manifestazioni di Pietroburgo, poi c’erano stati gli effetti dell’uccisione di Stolypin il modernizzatore - come racconta Solgenitsin - compiuta dagli anarchici per peggioriamo. Quando il pallino passa nelle mani dei rivoluzionaristi, bolscevichi, scoprono che il problema è talmente duro che bisogna fare uno stato d’eccezione, ed è la solita storia, bisogna esser cattivi per fare la bontà, bisogna fare uno Stato che non è quello di prima. Ed è qui che si consuma la rottura tra Lenin e la socialdemocrazia europea. I bolscevichi erano stati fino ad allora la biforcazione a sinistra (volontaristica) del kautsko-marxismo che è figlio dell’arrovesciamento e dell’inversione paradossale statalista operata da Ferdinand Lassalle. Negli stessi anni l’opposta teoria di quelli che dicono che bisogna prendere la macchina dello Stato

Stato e stato d’eccezione

Stato si scrive con la esse maiuscola, come in tedesco, der Staat, e stato d’eccezione è uno stato di cose, però nella crisi c’è una crasi e così si impone il modello del comitato di salute pubblica giacobino. Siccome ci accerchiano bisogna mettere in galera chi rompe i coglioni. Il Palazzo d’inverno era stato preso in nome della promessa veramente autonoma, comunarda e con un accento anarchico, come si legge in Stato e rivoluzione: tutto il potere ai soviet degli operai e dei contadini e dei soldati. Il putsch, però, si consuma dentro la rivoluzione. Perché bisogna mettere ordine, e dunque viene sciolta la Duma. E, forse, lì quasi potremmo ancora esserci. Perché la Duma ha una maggioranza kerenskiana, opportunista.

Ma questo potere cosiddetto riunito nei soviet viene subito riconfiscato dal demiurgo che dall’alto deve gestire una rivoluzione statalista per cui estinguere lo Stato comporta la creazione di uno Stato di eccezione. E si cominciano a mettere in galera gli anarchici, e i destri e i sinistri, opportunisti, impazienti. Può essere che siano tutte perfettamente buone intenzioni, lo do per scontato, ma così è ancor più interessante perché uno Stato nato dalla rivoluzione diventa sempre più iperbolico, ipermilitarizzato. Allo stesso modo è una coppia sequenziale comunismo di guerra- nuova politica economica, due ganasce della stessa tenaglia, l’idea lassalliana che l’organo della rivoluzione può diventare una forma-Stato, anche se la chiami diversamente, e chiami commissari del popolo i ministri, e dunque tutti i paradossi e le eterogenesi dei fini. Bisognerà fare uno Stato che diventa uno Stato non Stato, come il non compleanno di Alice, in cui la cuoca possa leggerne i bilanci, e, ancora di più, passare da un governo sugli uomini all’amministrazione delle cose: ma per estinguere lo Stato bisogna fare un Iperstato vertiginoso, iperbolico, a partito unico.

(E’ divertente come oggi nei due poli è tornata di moda l’espressione partito unico manco hanno il pudore di dire un unico partito del nostro polo).

A questo punto che si fa? Si deve schiacciare Kronstadt, si devono schiacciare i macnovisti, perché siccome i generali bianchi sono arrivati sotto Varsavia e l’Armata rossa è stata sconfitta, puntiamo sul massimo sviluppo, sulla potenza operativa, produttiva, nella fattispecie anche militare. I durrutisti l’hanno dimostrato nella guerra di Spagna con la colonna di ferro. Se non ci sono gradi, gerarchie, rappresentanze ma si punta, al contrario, sull’autonomia, sul frammento di una generale potenza della specie, incarnato da ognuno, anziché sulla potenza produttiva. Invece no, siccome c’è l’accerchiamento si devono mettere in galera tutti i rompicoglioni e si fa la normalizzazione.] anziché distruggerlo culmina nel socialdemocratico a Noske per essere poi ripresa anche da Mussolini e dai fascisti. Ma il progetto di rottura deve fare i conti e finisce per arenarsi sull’omogeneità teleologica e sul peso dei dispositivi della concorrenza mimetica.

http://orestescalzone.over-blog.com/article-604984.html