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L’occhio di Dio e la parola delle donne

Publie le sabato 14 gennaio 2006 par Open-Publishing

Dazibao Donne Manifestazioni-azioni Movimenti

di Lea Melandri

Mi sono chiesta a lungo quale possa essere stata la motivazione più forte che ha spinto le donne a rincontrarsi nelle affollatissime assemblee presso la Camera del lavoro di Milano, oltre che in molte città italiane, e a manifestare oggi per le strade milanesi, evocando insoliti colorati cortei di cui si è persa memoria. Per quanto sia sentita la questione dell’aborto, e grave l’accerchiamento che rischia di rendere inapplicabile di fatto la Legge 194, non mi sembrano di per sé sufficienti per comprendere la risposta, incredibilmente rapida ed estesa oltre ogni aspettativa, che ha avuto l’appello a "uscire dal silenzio", fatto circolare in un gruppo di amiche.

Leggendo le migliaia di commenti, proposte e iniziative che affluiscono senza sosta in una improvvisata piazza telematica, ciò che balza agli occhi è l’insofferenza - ma si potrebbe anche dire il fastidio, l’indignazione, la noia - di fronte al fatto che, pur essendo oggi le donne molto più presenti che in passato nella vita pubblica, sono sempre altri a pensare, parlare, decidere per loro. Non mi riferisco solo alle gerarchie ecclesiastiche e agli integralisti di tutte le religioni, ma anche a politici, medici, scienziati, filosofi, opinionisti che ogni giorno ci dicono che cosa è una donna, che cosa deve o non deve fare, se deve partorire o non partorire - a seconda delle esigenze demografiche o in rispetto della morale dominante -, se deve fare l’amore o astenersi, se è giusto che lavori o si accontenti del ruolo di moglie e madre, come se questo non fosse un lavoro ma la naturale estrinsecazione della sua indole.

L’abitudine a spiare fin dentro il corpo delle donne non è solo del dio di Ratzinger - di quell’occhio divino che sembra non abbia migliore interesse che annidarsi in un utero e vigilare sul nascituro fin dal concepimento. E’, purtroppo, occupazione millenaria, croce e delizia, di una comunità storica di uomini che ha preteso fin dai primordi di controllare, sottomettere, definire la funzione dell’altro sesso, considerandolo una specie inferiore, più vicina alla natura che all’umano.

Se sulle donne pesassero solo marginalità, discriminazione, svantaggi, la civiltà occidentale potrebbe tirare un sospiro di sollievo, dato che, almeno formalmente, un qualche riparo alle offese della storia è stato messo. Solo una profonda, inconfessata misoginia, riscontrabile per altro in ogni forma di razzismo, può spiegare perché un’emancipazione incontestabile continui ad accompagnarsi a dati altrettanto incontestabili di violenza manifesta - stupri, omicidi, percosse - e a quel suo risvolto meno visibile, ma proprio per questo più insidioso, che è la collocazione della donna tra i soggetti sociali deboli, bisognosi di essere difesi, indirizzati, protetti dai loro stessi cattivi impulsi.

Le donne potranno entrare nel consorzio umano -si legge nell’ "Emilio" di Rousseau - solo se rinunciano alle loro violente attrattive e si dispongono a rendersi utili agli uomini: «Non tollerate che, anche per un istante della vita, si sentano libere da ogni freno. Abituatele a vedersi interrotte sul più bello dei loro giochi e ricondotte ad altre occupazioni senza protestare». Se possono aspirare alle stesse occupazioni e agli stessi diritti dell’uomo, scriveva Otto Weininger solo un secolo fa, non possono comunque arrivare ad avere la stessa "libertà morale e spirituale" che la natura avrebbe riservato al sesso superiore. Pregiudizi e storture di altri tempi, patologie residuali che si manifestano in casi isolati, nostalgie temporalistiche di una Chiesa duramente provata dalla modernità? Non si direbbe. E non solo per l’affanno dei tutori della vita chiamati, nella proposta di legge sulla riforma dei consultori, a «ricordare alla donna il suo dovere morale di collaborare nel tentativo di superare le difficoltà che l’hanno indotta a chiedere l’interruzione volontaria di gravidanza». Gerarchie di poteri e di valori, sedimento più o meno consapevole del dominio maschile, fanno da filtro anche nei luoghi più insospettabili della cultura, della politica e della comunicazione. E’ ancora "il corteo degli uomini colti", per usare una bella immagine di Virginia Woolf, che sfila sulla scena pubblica, confortato dagli occhi, fatti specchio, delle ancora tante, fedeli "signorine Smith". La rivoluzione portata dal femminismo degli anni ’70 - sulle coscienze, sui modi di sentire e vivere il corpo, la sessualità, i rapporti d’amore, la maternità, la relazione tra privato e pubblico, individuo e collettività -, se la si guarda attraverso gli sviluppi successivi, nasce il dubbio che sia stata perlopiù subita, sopportata, anche da quella sinistra che mirava a rivolgimenti radicali della società, e che sia stata poi rimossa non appena il movimento delle donne è sparito dalle piazze e dall’interesse dei media.

"Uscire dal silenzio" vuol dire oggi ritrovare una forza collettiva, che è messa in comune di pensieri, sentimenti, desideri coltivati troppo a lungo in solitudine dalle singole ma anche da associazioni che hanno finito per privatizzarsi, vicine eppure tra loro poco dialoganti; vuol dire esprimerla in modo vistoso, occupando piazze e strade, luoghi-simbolo della pòlis e quindi di una socialità tra simili tenuta a lungo separata dalle case, dagli interni di famiglia, e, in sostanza, da inquietanti sguardi femminili. Trent’anni fa si è detto - e forse siamo ancora in molte a pensarlo - che "è già politica" il piccolo gruppo di autocoscienza, la modificazione del modo di pensare la propria vita e il mondo. Ma senza le manifestazioni - divorzio, diritto di famiglia, aborto, violenza sessuale - il femminismo non avrebbe avuto la stessa incidenza nella vita delle persone e nelle istituzioni pubbliche. Di qui la necessità di "riprendere la parola" singolarmente e collettivamente, con voce così alta che nessuno possa dire di non averla sentita.

Ma se è vero che la vicenda dei sessi, antica quanto la specie umana e disseminata nel quotidiano di ciascuna vita, ha finito grottescamente per divenire anche per il femminismo un’emergenza, il sussulto che si ha di fronte a una minaccia particolarmente grave, una delle ragioni va cercata sicuramente anche nella "messa sotto silenzio" che ha fatto seguito a un decennio di grandi cambiamenti. Uscirne può voler dire, in questo caso, non offrire più alcun alibi a chi fa finta che non esista un pensiero, una cultura, una visione del mondo, una progettualità di donne consapevoli del peso storico che ha avuto il patriarcato, l’intreccio di amore e violenza su cui si fonda la complementarizzazione dei ruoli sessuali. Non parlo genericamente di "pensiero femminile", ma del pensiero di donne che sanno di essere tali, perché è questa la "diversità" che gli uomini ancora stentano a vedere e ad ascoltare. Far finta che il rapporto tra i sessi non sia affiorato alla storia, e che oggi non sia un tema fondamentale della politica - non uno dei tanti ma quello che tutti li interroga e li attraversa -, in un’accezione ampia, comprensiva di tutte le esperienze che hanno il corpo come parte in causa: nascita, sessualità, maternità, invecchiamento, malattia, morte - significa continuare a servirsi della neutralità come potere, a illudersi che la liberazione della donna abbia a che fare con i diritti e le tutele riservati di solito alle minoranze, e che non comporti invece la messa in discussione del sessismo e del suo profondo radicamento sia nella cultura che nel senso comune.

Nel momento in cui le circostanze attuali spingono a ritornare sul tema dell’aborto, colpisce che ad essere ancora una volta cancellata sia la domanda che, a partire da un breve scritto di Carla Lonzi, ha aperto la strada alle teorie e alle pratiche di un decennio di analisi, interrogativi sulla sessualità femminile, sul rapporto corpo e pensiero, natura e storia: "perché le donne restano incinte? "

Non è difficile provare fastidio per l’aggressività con cui oggi la Chiesa tenta di imporre la sua verità come assoluta, e sentir crescere l’insofferenza per la colpevolizzazione continua, ossessiva, delle donne che trova nell’interruzione di gravidanza un terreno facile, già preparato.

Chi ignora infatti che le donne si sono sempre sentite in colpa - se facevano o non facevano figli, se ne facevano troppi o troppo pochi, se segretamente si accorgevano di desiderare un piacere sessuale proprio, indipendente dalla procreazione. Insistere su questo terreno, come stanno facendo il Papa, alcuni vescovi e i crociati del movimento per la vita, è un atto crudele e vile che oggi, facendosi forte delle innovazioni introdotte dalle tecnologie riproduttive - la possibilità di isolare le prime fasi del concepimento -, la Chiesa ha creduto di poter gonfiare a dismisura, concludendo, con l’uso spregiudicato della storia ormai diffuso, che se l’embrione è già persona l’aborto può essere equiparato all’omicidio e al genocidio.

A differenza degli anni ’70, in cui si trattava di sottrarre l’aborto alla clandestinità, al rischio dell’incriminazione e soprattutto al pericolo per la salute e la vita della donna, oggi, si chiedeva Gad Lerner nella trasmissione "L’Infedele" di mercoledì scorso, in presenza di una legge che ne garantisce praticabilità e tutela, e di una scienza che porta allo scoperto le fasi prime del formarsi della vita, non dovrebbero le donne essere più pensose, più esitanti di fronte al dubbio della violenza che l’aborto può infliggere al feto? Sì, è vero, si è sicuramente più pensose, ma quello che inquieta è che la fantasia più arcaica dell’uomo-figlio - il potere incontrollabile attribuito al corpo femminile di dare la vita o la morte - abbia preso consistenza nella provetta che, separando artificialmente l’embrione, ha fatto credere di poter finalmente sottrarre il nascituro alla parziale in-distinzione col corpo della madre, alla imprevedibilità dei suoi desideri, a una verità che ancora gli uomini stentano a tollerare: la dipendenza o, se vogliamo, la coidentità, sia pure per un tempo limitato, con l’altro sesso.
C’è un solo modo per non restare fermi all’immaginario della nascita, per distogliere lo sguardo da quella coppia di protagonisti dell’origine, madre e figlio, su cui si può ipotizzare che si siano modellate tutte le coppie di opposti che conosciamo: è pensarsi uomini e donne, liberi, come si legge su uno degli appelli della manifestazione di oggi, "di vivere e convivere" secondo le proprie inclinazioni.

http://www.liberazione.it/giornale/060114/LB12D6B7.asp