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L’ossessione penale

Publie le venerdì 22 luglio 2005 par Open-Publishing

Estradizioni Oreste Scalzone

L’ossessione penale

de Oreste Scalzone

Dello sciopero della fame ci interessava che se ne parlasse anche in Francia perché lo spunto e anche il teatro delle operazioni per uno come me non poteva che essere italiano. Tra l’altro se il discorso è contro il panpenalismo, l’ossessione e la tossicomania penale è un discorso non solo italiano, ma il nostro caso è specialmente interessante. Si pensi all’emergenza catto-stalinoide del compromesso storico che ha introdotto il modello di inquisizione come forma dell’emergenza. Così come gli americani a Guantanamo hanno introdotto una metabolizzazione, un ibrido che ha recuperato come materiali il saper fare nazista da un lato e stalinista o polpottista dall’altro, il tutto rielaborato in un kitch postmoderno di stili, come tecniche del penalismo dell’era dello Stato planetario o dei controstati omologici e concorrenti mimetici del neoliberalismo e di questa corsa alla tecnoeconomia capitalistica totale, allo stato società e all’ homo penalis.

Il teatro italiano è interessante come oggetto e poi, comunque, ci riguarda il problema più piccolo di un’amnistia o indulto politico come soluzione dell’irrisolto degli anni ’70, di questa sorta di insurrezionalità subacuta e cronica, che è l’elemento generale che spiega poi nel bene e nel male tutto. Anche gli errori, gli orrori, l’insieme. Seppure uno si mette dal punto di vista locale del rifugiato, è una bestialità dire che la soluzione deve essere francese. Così si fa come quelli che dicevano che la nuvola di Chernobyl si arrestava ai confini della Francia. Anche perché è chiaro che in un processo di integrazione europea alla lunga comunque l’asilo sarebbe venuto meno. Non è pensabile che uno perseguito per reati da ergastolo nello Stato di New York possa rifugiarsi in California. Quindi il problema per me va bene come problema italiano, anche se una delle mie motivazioni altrettanto motivante è quella di portare una piccola pietra ad una battaglia contro questa corsa al penalismo. Io potrei ripartire da uno, possiamo essere, quindici, se c’è qualcuno che è d’accordo con me quasi per gioco ci potremmo chiamare piccola cerchia o circolo dei comunauti, perché è un discorso sulla comune autonomia. Noi, con tanti altri, una volta che ci siamo capiti potremmo dar vita ad una sorta di corrente che si mette in moto, per una cosa che dovrebbe chiamarsi movimento antipenale, come c’è stato quello contro le istituzioni totali, antipsichiatrico o anticarcerario. Quello che ho detto fin qui è anche per dire: signori professori, qua nessuno è fesso, questo non è un discorso a margine di specialisti ma un discorso sull’insieme dei problemi quanto parlare di capitalismo cognitivo.

E questo è posto non come apocalittismo, perché resta la radice anche volontaristica dell’antihegelismo e dell’antiquerulenza, del partire dalla potenza come discorso spinoziano. Malgrado ciò, resta la consapevolezza di una possibilità apocalittica di passare al post umano, come dice anche Sloterdijk. Solo che lui lo vede in modo meno drammatico, con quell’aspetto raggelante proposto dal situazionismo. Io non dico che tutto è giocato, ma che la tendenza è questa, che tutto è più contraddittorio, che l’autonomia è la cosa meno spontanea.

Non credo a una specie di facilità per cui tutto è sovversivo, la fenomenologia sociale delle moltitudini. Penso invece che tutto vada giocato in termini di sfida e di scommessa, niente è fatale e va dato come tale. D’altra parte la specie umana è ancora là ed è riuscita a sopravvivere a tutto quello che si è scatenato contro negli ultimi 80 anni con la potenza enorme che ha avuto, non perché è diventata più crudele ma perchè - come dice la Arendt - i mezzi tecnici sono diventati spaventosi e lo saranno ancora di più. Ho detto che alcune cose mi indignano. Mica posso obbligare qualcuno a cambiare, però ho l’occasione, forse, che mi stiano a sentire perché io do per scontato che tutti possano essere brave persone. Il diniego di amnistia è anche epifenomeno e conseguenza di tutto questo, ma non è il peggio. Il peggio ancora è di pensare di non dare soluzione e che un’intera generazione non abbia una seconda possibilità nella storia e che debba crepare in galera. Ma non è ancora il fondo. Ciò che è abbietto e infame e che tutta un’area di post- sessantottardi, che in qualche modo producono pensiero pubblico, i cosiddetti intellettuali, possano pensare che si possa chiudere così.