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La protervia dei deboli

Publie le mercoledì 5 ottobre 2005 par Open-Publishing

Dazibao Analisi Oreste Scalzone

di Oreste Scalzone

Io, personalmente, non ho debiti da esigere. E quindi decido unilateralmente di spezzare la catena della riscossa e della vendetta. Senza reciprocità, senza gna gna. Tutto questo, è ovvio, non c’entra niente con la pacificazione e la condanna della violenza. Quando anche si decidesse di riaprire una fase di guerra sociale dispiegata, tutto ciò non c’entrerebbe nulla con i giustizieri. Poi si vedrà se la violenza è necessaria, ma è un’altra cosa. Di certo non si potrà, non si dovrà mai più ammazzare per vendicare, per punire.

Molti di quelli che non hanno esitato a presentarsi a capo chino materialmente davanti al giudice o metaforicamente davanti alla potenza dispiegata dallo Stato, non se la sentono di dire una parola alla vedova Moro o alla vedova Mattei.

Ma che vuoi fare quando uno dei tuoi, che è giunto ad attraversare la porta stretta del passaggio alla critica delle armi, se ne esce con una frase - “Ma io do lavoro” - che è la quintessenza dell’ideologia capitalistica? Gli regali la vecchia edizione di Lavoro salariato e capitale, quelle che mi diede mio cugino Claudio Petruccioli quando avevo dodici anni per la prima lettura marxista e gli raccomandi di ripassarsi i fondamentali? Va bene che gli attori e gli scrittori non ne abbiamo idea ma per uno che ha preso le armi è un nonsenso assoluto. Il comunismo amputato dell’idea di plusvalore è un assurdo, o meglio il Frankestein che descrive Marx in una lettera a Engels. Ci hanno attribuito molte cose, precisava al suo sodale il Moro di Treviri, ma la dottrina del valore lavoro l’ho presa da Ricardo, la teoria della lotta di classe come motore dello sviluppo dagli storici francesi, la dialettica da Hegel, ma l’unico apporto originale nostro è l’invenzione del plusvalore.

A cosa allude infatti l’idea geniale dei comunardi di distruggere gli orologi se non alla cronofagia del Capitale? Il comunismo di Gioacchino da Fiore aveva una sua grandezza. E il termine stesso era stato riscoperto e introdotto nel lessico politico rivoluzionario dagli Eguali, Babeuf e Buonarroti. Ma il plusvalore è costitutivo del comunismo moderno. Avremmo dovuto far studiare di più i compagni giovani, che erano comunque in buona compagnia. Persino il Migliore, nella prima tesi del 7° congresso, scrive uno strafalcione da matita rossa parlando del lavoro come una merce.

Oggi sappiamo che le armi non si possono, non si devono prendere per una passione. Così abbiamo creato degli spostati. Buoni, anche buoni, certo, ma il mondo non ti perdona lo stesso. Questi arrivano a credere manicheisticamente che i poveri sono intrinsecamente buoni e i ricchi cattivi. C’è molta più potenza gnoseologica in un film dell’ultima stagione della commedia neorealista, i Brutti, sporchi e cattivi di Scola, di quanta non ce ne sia in tutta questa melassa vangelizzante. Ma, ragazzi, se il peggio del nazismo era proprio nella capacità di uccidere la pietà e il senso di solidarietà tra i prigionieri... No, nei lager non albergava la bontà.

Caro Canetti, se non possiamo smettere è per la necessità di prevenire. La guerra preventiva è un assurdo giuridico, non etico. Figurarti se lo fai ex post, per punire. I compagni non ci arrivano proprio a capire che l’unica risposta possibile è quella di Erri De Luca: Eravamo compatibili con l’omicidio. Sì, eravamo degli assassini. Ma non eravamo certo i soli*Solo se si assume questo dato possiamo cominciare a ragionare. Di omicidio e Stato. Di omicidio e politica. Di omicidio e rivoluzione. E allora un ragionamento ben costruito presuppone che si parta dalle intenzioni, si esaminino gli enunciati e si mettano a confronto i mezzi e i fini, per concludere con la verifica degli esiti. Ma chi può condurre l’esame? Delle buone intenzioni è lastricata la via dell’inferno e poi sono intangibili. Gli enunciati valgono fino a un certo punto: perché un fine dialettico potrebbe arrovesciare la distinzione corrente tra i due totalitarismi del Novecento. Paradossalmente non è meglio la sfrontatezza del nazismo a fronte dell’ipocrisia stalinista? E così restano solo i mezzi e gli esiti. Ma chi li può esaminare?

Noi capiamo che i familiari delle vittime ci vogliano vedere morte. Ma c’è chi continua a lavorare per mantenerle in questo stato di tossicodipendenza da pena. E dal canto nostro, a questo abietto gioco noi opponiamo la vigliaccheria di chi preferisce inchinarsi allo Stato e non alle vedove.

Comunque se pensiamo che esistano sottouomini**(che siano i Berlusconi o finanche i Priebke cambia poco) è meglio che cambiamo paradigmi. Il comunismo vuole distruggere ruoli e rapporti sociali: e per questo si è potuto anche arrivare ad ammazzare uomini, ma l’essenzialismo, l’idea malsana che gli avversari siano demoni da esorcizzare con riti voodoo, è infinitamente peggio.

*La criminalizzazione della responsabilità intellettuale

Ciò detto, resta profondamente necessario e giusto combattere con le unghie e con i denti contro la penalizzazione della responsabilità intellettuale dei cattivi maestri nella sfera del giudiziario, di ciò che ha rilevanza penale, non perché abbiamo l’ipse dixit ma perché è una forma come un’altra per truccare, per far saltare il principio della presunzione d’innocenza, del carattere circostanziato specifico e quindi necessariamente di quello che andrebbe provato per definire la responsabilità penale. Mi sembra che sia lì il punto, questo arbitrio che viene permesso quando sono le parole a diventare oggetto di materia penale.

Non è tanto che le parole siano nobili, ma ancora più grave mi pare gonfiare la responsabilità oggettiva di uno che ha fatto il prestanome e poi non solo viene condannato per i reati associativi in modo pieno ma anche per il concorso in tutto quello che la verità giudiziaria ritiene sia stato organizzato o sia partito dalla base da lui affittata, addirittura nelle conseguenze impreviste. Parlo di fatti reali, sentenze fatte. E’ già pesante dare al firmatario, che magari non ne sa più niente, e potrebbe essere accusato di favoreggiamento o magari di partecipazione a banda armata, un concorso in omicidio. Ma addirittura se di lì è partita una rapina finita in scontro a fuoco e si tira il concorso pieno in omicidio anche al prestanome siamo certamente al limite, diciamo così per eufemismo. No, la responsabilità oggettiva è ancora più grave di quella intellettuale.

E’ per questo che io all’epoca del 7 aprile non mi ero ingolfato nel discorso corporativo che l’orrore maggiore era accusare dei libri e degli autori di libri, però non per questo avevo lasciato cadere l’appiglio polemico. Anzi ne avevo trovato uno (secondo me) più preciso, che non consentiva a un Violante di fare i sarcasmi che faceva sugli atteggiamenti degli intellettuali, cattivi maestri dell’armiamoci e partite. Io obiettavo che esiste un codice di tempo di pace, un codice penale e un codice militare di guerra, basta che vi mettiate d’accordo. Se usate quello del tempo di pace non potete accusare per contiguità, istigazione, responsabilità oggettiva. Se invece volete usare quello del tempo di guerra a me può andar bene. Ma siccome nel vostro schema gerarchico volete interpretare il ruolo di qualcuno come me come se fosse il generale che trasmette degli ordini, , dovreste applicare la non punibilità per averli eseguiti a quelli che riteniate siano i soldatini. Il trucco forte non sta nella penalizzazione della responsabilità intellettuale ma sta nell’uso alterno ogni volta della combinazione fra i due aspetti a maggior svantaggio degli imputati. Calpestando ancora una volta un principio conclamato dal diritto, la regola della norma pro reo, che non è una forma di benevolenza. Semplicemente lo Stato, che è più forte, pretende di ottenere legittimamente il monopolio della forza deve essere capace di autolimitare questa forza. Se si comporta come la mafia di Corleone è più difficile la legittimazione.

**Sottouomini

Qui non c’entrano niente universalismi o umanesimi o diritti degli uomini o cosmopolitismi, c’entra la “razza umana”, in termini marxiani la Gemeinweisen, radice comune, comune denominatore, base di ogni riconoscimento di reciprocità e di comunanza. Pensare che ci siano Untermenschen è al di sotto di ogni pace e di ogni guerra, e anche di ogni omicidio, che ancora riconosce nell’ucciso il proprio simile. Sotto, da un’altra parte, ci sono gli essenzialismi, i razzismi confessi o no, e ci sono allora sterminismi e stermini, il ghigno atroce dell’Arbeit macht frei, rieducazioni socialiste, fino al laboratorio ultraneoliberale, e ai laboratori penali della democrazia assoluta, assolutismo democratico, democrazia tecnocapitalistica, nazionale, popolare, planetaria, giustiziaria, che ha sussunto gli aspetti peggiori dei saperi penali di ogni tipo: certo quello nazista, quello stalinista, quello coloniale, la produzione di servitù volontaria. In questo si traduce l’assalto decisivo all’umano, alle forme spinoziane di desistenza o alla disperata vitalità pasoliniana. E tutto questo rischia non solo di chiudere l’orizzonte di oltrepassamento, ma anche la possibilità stessa della conservazione dell’umano, che è quella di porre e riporre la questione del potenziale di autonomia come potenza di persistere andando oltre e altrimenti.

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