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QUANDO SEI NATO NON PUOI PIÙ NASCONDERTI

Publie le giovedì 19 maggio 2005 par Open-Publishing
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Dazibao Cinema-video - foto Enrico Campofreda

di Enrico Campofreda

È un’Italia che sappiamo esistere ma non vogliamo vedere, di cui utilizziamo merce e manodopera a basso costo, un’Italia globalizzata fatta di ghetti e di anime morte quella mostrata dall’ultimo Giordana, che trae spunto dal romanzo di Maria Pace Ottieri per narrare la crescita e il disincanto di un adolescente. Come il giovane Sandro viviamo ovattati nella bambagia d’una fragile opulenza, credendo d’esorcizzare i problemi del mondo, un mondo affamato e disperato che preme alle porte del nostro paese dell’abbondanza.

L’ipocrisia ci porta a utilizzare la schiera dei diseredati legalmente o illegalmente ma non a riconoscerne i diritti, a schedarli come vuole la legge Bossi-Fini, a dare loro la cristiana assistenza ma rinchiuderli nei ghetti che non vogliamo vedere dai terrazzini delle nostre case.

È la mostruosa Italia che ha dimenticato d’essere cresciuta grazie all’emigrazione dei nonni e dei padri durata fino a trent’anni fa, che s’è rinchiusa nella conservazione della propria villa con piscina come fa la famiglia di Sandro, e se non può permettersela si permette comunque tanto individualismo razzista.

E le sciurette lumbard dell’esperienza del ragazzino finito in mare e salvato dalla carretta dei clandestini colgono il presunto dramma della promiscuità coi neger. È la brutt’Italia dei leghisti ma non solo, perché a parole coi clandestini tutti facciamo i solidali allungando magari l’elemosina, ma quanti di noi s’infastidiscono per le piazze che brulicano d’ambulanti, per i mussulmani nelle classi dei nostri cattolicissimi figlioli, per i suonatori questuanti mentre ceniamo con gli amici al ristorante, per queste domestiche e badanti sempre più pretenziose, per i lavoratori extracomunitari che rivendicano salario e abitazione e magari si sindacalizzano?

A questo è arrivato il popolo catodico che come Bruno, il padre di Sandro, si fa il culo dirigendo la fabbrichetta e chiede alle maestranze se merita il nuovo prototipo d’auto che intende acquistare: un’auto che sui 280/h ha una frenata di 138 metri virgola tot centimetri, che lui sa.

Si può vivere così per anni e far finta di nulla come fanno Bruno, Lucia, Sandro, l’amico Popi. Tutti presi da lavoro e riposo da godere magari in barca a vela. Poi accade l’imponderabile, Sandro di notte cade in mare in pieno Adriatico, a nulla valgono le sue grida disperate che il padre non può sentire, a nulla vale la disperazione paterna quando s’accorge dell’assenza del figlio sottocoperta. Sandro è un bravo nuotatore ma stremato rischia d’annegare, lo salvano alcuni clandestini che sul rottame d’un peschereccio vengono traghettati dalla malavita pugliese presso le coste. Uno dei migliaia di viaggi della speranza e della disperazione coi quali albanesi, curdi, rumeni, slavi, indiani, pakistani, cinesi, nigeriani, senegalesi e cento altre etnie giungono in occidente per fuggire da fame, malattie, guerre, dittature, brutture del mondo. Cosicché anche il disumano viaggio cui si sottopongono - forse peggiore a quello degli emigranti dell’Ottocento - è meglio di ciò che si lasciano alle spalle.

Il bambino Sandro vede tutto questo, entra in una dimensione fino a quel momento conosciuta solo dalle parole che un anziano di colore nella sua Brescia ripeteva ossessivamente “Ebar soraya iti dogon”. Saranno, inizialmente il suo nome, quindi la sua nuova essenza di vita. “Quando sei nato non puoi più nasconderti” e l’esperienza che il ragazzo sta vivendo lo traghetta a nuova e vera vita. È un viaggio d’iniziazione: non solo lui apre gli occhi ma li fa aprire all’intera famiglia. Quando i genitori disperati ricevono una sua telefonata non credono al miracolo. Raggiungono Sandro in un Centro d’accoglienza e scoprono che si è legato a due rumeni Radu e Alina, con cui ha familiarizzato durante i terribili momenti del tragitto sulla carretta del mare.
Spiazzando padre e madre Sandro propone di adottare i due ragazzi, il padre sbanda (a parole tutto è possibile ma nei fatti...) poi cede. Però Radu, che si finge minore, viene scoperto e dovrà essere rimpatriato. Così decide di fuggire e raggiungere insieme alla sorella la villa di Sandro. I due non fanno in tempo a essere accolti da Bruno, che stigmatizza la fuga ma pensa di regolarizzare la situazione, che svaligiano la casa e si volatilizzano.

Delusione immensa per tutti, c’erano stati apertura e affetto verso i giovani immigrati, mentre quel gesto risveglia preconcetti e rialza steccati. Colpito è soprattutto Sandro, ormai trasformato dalla sua esperienza di vita, che non può più tornare a essere il bambino di prima né sarà mai un bambinone adulto come Popi l’amico del padre.

Ma un giorno squilla il portatile che Bruno aveva regalato a Radu, una voce sottile indica un luogo: Corsico. È una zona di Milano dove in una struttura dismessa vivono migliaia di extracomunitari. L’ometto Sandro prende il treno a ci va. Dopo aver nuotato in mare aperto, visto le facce dei ceffi che trasportavano i clandestini, viaggiato e patito con loro fame e sete, ascoltato i loro drammi del passato e le ansie per il futuro Sandro non teme nulla, è nato per davvero e non si nasconde.

Vaga nello spettrale edificio, fra lugubri capannoni è richiamato dalle note d’una canzone che tanto piaceva ad Alina. La musica lo conduce da lei che gli appare nella veste di ragazza di strada. È il fratello a costringerla a quel degrado, dal quale con l’aiuto di Sandro cercherà di allontanarsi. I due adolescenti cresciuti in fretta si dividono un panino in una rotonda della metropoli tentacolare. Non si nascondono come fa chi insegue il business senza sentire neppure il battito del proprio cuore, sono l’esempio dell’auspicata società della tolleranza e dell’integrazione. Ma avranno un futuro?

Regia: Marco Tullio Giordana
Soggetto e sceneggiatura: Marco Tullio Giordana, Sandro Petraglia, Stefano Rulli
Tratto dall’omonimo romanzo di Maria Pace Ottieri
Direttore della fotografia: Roberto Forza
Montaggio: Roberto Missiroli
Interpreti principali: Matteo Gadola, Ester Hazan, Alessio Boni, Michela Cescon, Rodolfo Corsato, Adriana Asti, Vlad Alexandru Toma
Scenografia: Giancarlo Basili
Produzione: Cattleya, Rai Cinema
Origine: Francia / Gb / Italia, 2005
Durata: 115 minuti

Articoli e approfondimento: Repubblica / Italica

Messaggi

  • Intervista a Marco Tullio Giordana

    Nove minuti di applausi per “Quando sei nato non puoi più nasconderti” In un’intervista a Articolo 21 il regista de “I cento passi” e “La meglio gioventù” racconta la sua ultima fatica, in gara al Festival.

    di Tiziana Fedele
    La stampa francese ha accolto con ottime recensioni la pellicola di Marco Tullio Giordana “Quando sei nato non puoi più nasconderti”, unico film in concorso per l’Italia alla 58/ma edizione del Festival di Cannes. Il quotidiano “Nice Matin” candida Giordana alla Palma d’Oro, mentre “Le Figarò” ha scritto che il film “trasporta lo spettatore negli abissi profondi dell’infanzia”. La pellicola, infatti, racconta la storia di Sandro, dodicenne, che durante una crociera in barca nel Mediterraneo, cade in mare. Quando gli altri se ne accorgono, non riescono più a trovarlo e lo danno per morto, inghiottito dalle onde. Il bambino, invece, è stato avvistato e salvato da un barcone di clandestini. Tra gli emigranti ci sono due fratelli rumeni, Radu e Alina. Hanno la stessa età di Sandro e tra i tre ragazzi si stringe un rapporto di amicizia, nonostante le diversità e la lingua differente. Il ragazzo inizia, così, un avventuroso viaggio di ritorno verso l’Italia.

    Abbiamo raggiunto il regista a Cannes, proprio per farci raccontare dalla sua voce “Quando sei nato non puoi più nasconderti…”

    Partiamo da Cannes, nove minuti di applausi e un’accoglienza trionfale da parte della stampa francese. Che effetto le fa, tornare al Festival, dopo “La meglio gioventù” e in aria di Palma d’Oro?
    Per quanto concerne la Palma d’Oro non credo di essere tra i papabili. E’ difficile, dato che ci sono in competizione registi molto più celebrati di me. Delle pellicole in gara non ne ho viste molte, quindi non sono in grado di fare pronostici. Tornando a “La meglio gioventù”, quando venni a Cannes, due anni fa con quel film, ottenni un grande consenso. Quando un’opera di un regista viene particolarmente apprezzata si creano pesanti aspettative per quella successiva, facili da deludere. Invece il pubblico ha riservato a “Quando sei nato non puoi più nasconderti” lo stesso calore che aveva avuto per de “La meglio gioventù”. Due anni fa quel film fu una sorta di scoperta: nessuno si aspettava nulla da una pellicola di sei ore, pensata per la televisione. Oggi, invece, c’erano molte più aspettative. Aver confermato l’attenzione e la curiosità del pubblico, verso il mio lavoro e verso il cinema italiano, è una grande soddisfazione.

    Come si sente all’idea che “Quando sei nato non puoi più nasconderti” sia terzo nella classifica dei più visti, dopo due colossi come “Le Crociate” e “The final cut”?
    Siamo alla fine della stagione. In molti sono riluttanti a uscire con una pellicola, di questi tempi. Invece la gente sta andando a vedere“Quando sei nato non puoi più nasconderti” e questa è la cosa più importante, perché i film si fanno per il pubblico.

    Il suo film parla d’immigrazione. Ritiene che la Bossi Fini dia una valida risposta legislativa a questo problema, sicuramente di difficile gestione?
    “Quando sei nato non puoi più nasconderti”, in realtà, affronta un tema ancor più delicato di quello legislativo. Un tema che riguarda la nostra coscienza, le nostre percezioni e le nostre decisioni. Ogni legge risulterebbe insufficiente a regolamentare una questione così complessa. Ci sono, però, normative che nascono dalla cultura dell’accoglienza e che, per quanto insufficienti, sono migliori di quelle che nascono dalla cultura del ripudio. Però voglio dire, non per accattivarmi le simpatie di Bossi o di Fini, che è una questione difficile da amministrare. Bisognerà “mettere mano” a questa legge come a moltissime altre, in conseguenza delle situazioni che si verranno a determinare in futuro.

    Ritiene che ci dovremmo porre in modo diverso nei confronti degli immigrati anche in considerazione del fatto che gli italiani sono stati per decenni un popolo d’emigranti?
    Noi abbiamo una difficoltà in più rispetto agli altri paesi europei che hanno vissuto l’esperienza coloniale più a lungo e quindi ben conoscono cosa significhi rapportarsi con etnie diverse. Noi non abbiamo avuto il tempo di costruirci una cultura dello scambio. In quanto popolo di emigranti, siamo noi ad aver sempre subito il razzismo. Siamo, dunque, doppiamente impreparati a questo tipo di esperienza, sia perché difficilmente ci siamo trovati a convivere con altre etnie, sia perché gli stranieri ci riportano alla mente quella povertà che ha spinto i nostri padri e i nostri nonni a emigrare. E quindi, in qualche modo, agitano nel nostro inconscio lo spettro del passato. Nello stesso tempo, noi italiani siamo mossi da un sentimento di ospitalità e empatia nei confronti di chi arriva nel nostro paese. Siamo, forse, la nazione che ha il rapporto più ambivalente con l’immigrazione di tutta Europa: un misto di paura e desiderio di fare qualcosa, come testimonia il gran numero di volontari che si adoperano per questa causa.

    Come Salvadores con “Io non ho paura”, ha scelto di descrivere i drammi della società, attraverso gli occhi dei più piccoli. Ritiene che il punto di vista di un bambino o di un adolescente possa essere il più vero per raccontare un certo tipo di realtà?
    Gli adolescenti non si arrendono all’idea che non vi siano confini tra il bene e male. Non sono cinici, non sono spregiudicati o indifferenti. Nei più piccoli la curiosità vince sulla paura. Ho scelto di narrare questa storia dal punto di vista di un bambino proprio perché, nei piccoli, l’apertura verso gli altri, è più forte della paura del diverso o di quella di perdere i propri privilegi. In questa ottica, il rovescia completamente i termini della questione. Non sono gli immigrati che arrivano in Italia e dipendono da noi, ma è Sandro, che essendo salvato da un barcone di extracomunitari, dipende da loro. E tornando in patria assieme agli extracomunitari riesce a vivere quel rientro con gli occhi di un immigrato.

    Come mai ha optato per un finale aperto?
    Perché è un finale che risolve il film da dentro e non dà la sensazione al pubblico di una storia finita, da dimenticare. Gli interrogativi che i protagonisti si pongono vengono rilanciati agli spettatori. Il messaggio che questa pellicola lancia è quello di dire: voi cosa, in queste condizioni, cosa fareste?

    Lei ha fatto sempre film di denuncia, storici e molto impegnati. Anche gli americani sono tornati al colossal. Ritiene che il pubblico abbia bisogno di affidarsi al passato, per una rilettura del presente o per esorcizzare una realtà che non lo soddisfa?
    Ritengo che i processi psicologici che suscitano una domanda di un genere, rispetto a un’altra, siano molto complessi. Credo che gli spettatori abbiano bisogno di buoni film. Non esistono prescrizioni, nel cinema. Le pellicole devono essere aperte a tutte le sollecitazioni, alle inquietudini e al bisogno d’informazione sia del pubblico che dei cineasti.

    Pensa che la riduzione dei fondi per lo spettacolo contribuisca alla crisi del cinema italiano?
    Molti giornalisti stranieri mi chiedono cosa stia succedendo al cinema italiano? Mi dicono: “Siete gli eredi di una grande tradizione, avete una crisi di talenti?” Io dico no, mancano i soldi. Nel nostro paese ci sono molti talenti, ma il cinema ha bisogno di essere aiutato. Non va mantenuto, a mantenerlo ci pensano gli spettatori. Ogni nuova pellicola è come una campagna elettorale: si chiede il sostegno della gente. Se si impone un candidato a suon di quattrini, dura il tempo di un mattino, perché gli elettori capiscono l’inganno. Allo stesso modo non si può pensare di sovvenzionare completamente la cinematografia, ma si deve appoggiarla: è il compito di ogni governo, non importa di quale colore sia. Contribuire alla crescita della settima arte, significa proteggere la cultura del paese.

    Le case di produzione, ormai, preferiscono investire in fiction e film tv. Crede che pian piano il cinema soccomberà alla televisione, tenuto conto che i dvd e le pay tv stanno dando una grande mano a ridurre l’attenzione nei confronti dell’industria cinematografica?
    Non credo, anzi penso che la domanda di cinema continuerà a esservi e bisognerà soddisfarla. Basti pensare al fatto che se lo spettatore non trova esaudita la sua richiesta nelle produzioni del proprio paese va a vedere i film degli altri paesi. Quindi la domanda di cinema continua a esistere ed è molto forte e sarebbe un’assurdità rinnegarla. La televisione, dunque, non riuscirà a soppiantare il cinema, anzi se continuerà a peggiorare qualitativamente ritengo si verificherà il percorso inverso. Trovo sempre meno gente che ha voglia di trascorrere le sue serate davanti alla tv generalista, e sempre più persone che si abbonano ai canali satellitari, che danno i buoni film.

    Lei nei giorni scorsi ha fatto una forte dichiarazione sia sul governo, criticando Berlusconi sia sull’opposizione, da lei definita proiettata verso soluzioni troppo razionalistiche. Ci può dare un suo parere sulla situazione politica attuale?
    Sono un regista e provo insofferenza a rilasciare dichiarazioni politiche a oltranza. La situazione del paese è sotto gli occhi di tutti: mi sembra che fino all’altro ieri erano in pochi a dire il re è nudo. Io è da anni che lo sostengo. Ora, anche gli italiani se ne sono accorti. Basta che un bambino dica il re è nudo che tutto il velo di ipocrisia e di interessi si laceri. Dobbiamo questa presa di consapevolezza alla grande crisi economica del paese, negata fino all’altro ieri. Ora si comincia ad ammetterla. Il mio pensiero va a quelli che erediteranno queste responsabilità, che saranno costretti a prendere misure difficili e impopolari.

    Una battuta spiritosa. La sua prima collaborazione in un film è datata 1978 in “Forza Italia” di Roberto Faenza. Che effetto le ha fatto vedere che Berlusconi, aveva scelto quel titolo come nome per il suo partito?
    Mi sono sempre rammaricato con Roberto Faenza di non aver brevettato il nome. Se lo avessimo fatto, adesso saremmo miliardari e avremmo potuto candidarci lui come Presidente della Repubblica e io come Presidente del Consiglio…

    A nome di Articolo 21 le auguro un sentito in bocca al lupo per “Quando sei nato non puoi più nasconderti”, non solo per Lei, ma per tutto il cinema italiano che sarebbe onorato di vedersi assegnare una Palma d’Oro per un film di così grande spessore…

    http://www.articolo21.info/notizia.php?id=2027


    edoneo