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Signori delle armi e del cemento - GIULIANA SGRENA, INVIATA A KABUL

Publie le sabato 24 settembre 2005 par Open-Publishing

Dazibao Guerre-Conflitti Internazionale

Ritorno a Kabul, tra le macerie della guerra e i palazzi di vetro
Uno sviluppo edilizio selvaggio senza piano regolatore. L’ex sindaco Jack Dalak si è costruito un palazzo e ha fatto spianare le baracche di un ex campo militare. E poi l’oppio, i bordelli per ricchi e il sesso rubato e venduto sotto i burqa

di GIULIANA SGRENA INVIATA A KABUL

Tornare a Kabul dopo tre anni di assenza è uno shock. Rovine, palazzi nuovi, molti di vetro, zone completamente bunkerizzate con pareti enormi fatte di bidoni di cemento e filo spinato a protezione di obiettivi strategici (militari, ambasciate, Onu, etc.), mercati invasi da prodotti cinesi, montagne di immondizie, strade allagate in una città che soffre per la mancanza di acqua, si alternano con assoluta opacità. Le contraddizioni sono esplosive ma per ora la tensione, pur palpabile, sembra covare sotto la cenere.

Manca l’elettricità ma i telefonini vanno a ruba. I poveri sono sempre più poveri e numerosi e i ricchi, pochi, sempre più ricchi. Nel centro della città le vecchie catapecchie vengono sventrate per lasciare spazio a ville o palazzi, con vetrine che da tutti i piani si affacciano sulla strada per fare bella mostra di vestiti dozzinali. Altri palazzi, più discreti, ospitano negozi più raffinati, ristoranti e business centre, accessibili solo agli stranieri, numerosi in città. La presenza degli stranieri ha completamente drogato il mercato: l’affitto di una casa a due stanze è di 300 dollari, mentre lo stipendio di un funzionario pubblico afghano è di 50 dollari, ovvero una cena in un ristorante di lusso. A Kabul gli stranieri non sono solo occidentali ricchi, infatti, nonostante l’alta disoccupazione afghana, molti sono i lavoratori chiamati dai paesi della regione: per le costruzioni vengono impiegati i pachistani, mentre negli alberghi sono assunti indiani e nepalesi.

Edilizia selvaggia

Uno sviluppo edilizio selvaggio che non deve nemmeno fare i conti con un piano regolatore che non c’è, e al quale ha partecipato anche l’ex sindaco di Kabul, Jack Dalak. Che non solo si è costruito un palazzo nella parte settentrionale della capitale, ma ha fatto spianare le baracche di un ex campo militare nel centrale quartiere di Sharbur, dove avevano trovato rifugio alcuni senza tetto, per distribuire il terreno, per pochi soldi, ai signori della guerra che vi stanno costruendo lussuosissime ville. Signori della guerra, che in molti casi fanno parte del governo o si apprestano ad entrare nel nuovo parlamento, e che si sono trasformati in signori della droga, «businessmen», i nuovi padroni dell’Afghanistan. E’ infatti, il traffico dell’oppio, che rappresenta il 50% del prodotto interno lordo (se si tiene presente il mercato nero), a finanziare tutto quello che si muove in Afghanistan, politica compresa.

Lo sai che i papaveri

La battaglia contro la coltivazione dell’oppio è una sfida improbabile. Nonostante la costituzione di un ministero anti-narcotici, in funzione da qualche mese. Quest’anno la coltivazione di oppio è stata ridotta dal 67 al 63% a livello globale, ma grazie al clima favorevole - soprattutto la pioggia - la produzione afghana ha raggiunto il livello record dell’87% di quella mondiale. La politica dello sradicamento, favorito dai paesi donatori occidentali, Gran bretagna in testa - che vogliono risultati subito per eliminare il problema in casa - rischia di naufragare di fronte alla mancanza di alternative valide e all’assenza di infrastrutture necessarie per altri tipi di coltivazione. Non solo. Il problema è complesso: la coltivazione di papavero non deve solo fare i conti con la povertà. I proprietari della terra non sono i contadini che la lavorano ma i signori della guerra che l’affittano, imponendo il tipo di coltivazione visto che ne spartiscono la produzione e non c’è prodotto più redditizio dell’oppio. Quindi la lotta alla coltivazione dell’oppio è di lunga durata, secondo le Nazioni unite, tanto più in un paese dove è estesa a tutto il territorio nazionale. Peraltro, se viene sradicata da una parte del paese, la coltivazione aumenta dall’altra e si sposta anche oltre confine, in Pakistan, nelle zone tribali che sfuggono al controllo del governo di Islamabad. Più che alle leggi di Kabul la produzione risponde alla domanda occidentale.

Negli ultimi tempi, soprattutto con il ritorno di rifugiati, il consumo di droga si è tuttavia diffuso anche in Afghanistan. Non si tratta solo del tradizionale fumo di oppio, ma anche di eroina e l’assunzione attraverso iniezione rischia di comportare un nuovo disastro, quello della diffusione dell’Aids. Oltre alla droga si è diffuso anche il consumo di vino, causa di molti incidenti stradali, soprattutto il venerdì sera.

Sono ancora le rovine a caratterizzare la zona occidentale di Kabul. Le case sventrate durante la sanguinosa guerra fratricida tra le varie fazioni dei mujahidin, tra il 1992 e il 1996, continuano a essere l’elemento dominante sulla Darul Aman road, la strada, lunga chilometri, che porta a quello che era stato il palazzo di re Amanullah. Il vecchio palazzo reale appare maestoso, anche se completamente sventrato, in fondo alla strada, sulla collina. Dalla facciata cadente si può comunque intuire la bellezza del passato. Il palazzo sarà ora completamente ricostruito per iniziativa di un uomo d’affari afghano-tedesco che ha raccolto fondi privati per finanziare l’intervento. Il museo che si trova ai piedi della collina, invece, è già stato ricostruito.

Le macerie, ancora intatte nel loro lugubre squallore nel 2003, sono ora interrotte da nuovi edifici, molti occupati da negozi, e poi un complesso impenetrabile di cui si vedono solo le insegne della Elf. L’enorme compound - con cinque palazzine oltre all’edificio principale - già sede dell’ambasciata sovietica, poi occupata da migliaia di sfollati in fuga dallo Shomali sotto il fuoco dei taleban, ora è in corso di ricostruzione e ospiterà la nuova ambasciata russa. I russi sono tornati a Kabul, numerosi. Del resto, i tempi dell’occupazione sovietica sono lontani, i comunisti tornano in parlamento e i nuovi russi sono sicuramente esperti nella corsa al capitalismo selvaggio che è diventato il miraggio dei signori della guerra afghani, sotto protezione Usa. I profughi hanno lasciato le palazzine ex sovietiche ma, poco lontano, in quello che era una volta il centro culturale francese sono ancora accampate numerose famiglie, senza assistenza. Sono 380.000 i profughi rimpatriati nel 2005 da Iran e Pakistan che stanno chiudendo alcuni campi e costringono gli afghani ad andarsene, anche se, viste le condizioni del paese, il rientro dovrebbe essere volontario. E, molti di loro, rientrati non sanno dove andare.

Sulla Darul Aman road è stato ricostruito anche il più grande liceo dell’Afghanistan, vanto del re Amanullah, che però scompare di fronte all’enorme ed estesa struttura in costruzione sull’altro lato della strada. La Hawza Almeya Khatim Alnabeeyan diventerà una scuola islamica internazionale, per sciiti e sunniti, dove gli studenti verranno anche ospitati, maschi e femmine. Si vedono, in costruzione, i grandi dormitori. Una alternativa alla famosa università islamica di Islamabad. L’opera costosissima è iniziativa di sheikh Hossef Muhssini, un pashtun sciita di Kandahar, leader del Movimento per la rivoluzione islamica in Afghanistan, che avrebbe ricevuto finanziamenti anche dall’Iran. L’opera costituisce un affronto in una città che non ha nemmeno un ospedale funzionante - l’unico che dispone di una terapia intensiva è quello di Emergency - e molti bambini vanno a scuola sotto le tende per mancanza di aule. Invece di ospedali si costruiscono moschee, si lamentano alcuni. Due moschee sono infatti in costruzione in due parchi della città, Baharishan e Zarnegar. Eredità dei taleban che le avevano iniziate e che ora devono essere terminate: non si può distruggere una moschea.

Bordelli per stranieri

Ville, alberghi, guest house e ristoranti si sono moltiplicati nella zona residenziale di Wazir Akbar Khan, dove si trovano anche diverse ambasciate. Ma non tutte le guest house e, soprattutto, i ristoranti cinesi servono allo scopo dichiarato. Quasi inevitabilmente, la presenza di militari e uomini d’affari maschi alimenta la prostituzione, nuova attività fiorente nella Kabul dei mujahidin e dei taleban. I bordelli sono in genere vietati agli afghani, tranne ai ricchi che li gestiscono. Il tabù sessuale è ancora ufficialmente in vigore. Le prostitute sono cinesi, filippine e ora sono in arrivo uzbeche e tagiche, dicono i bene informati. I prezzi vanno dai 50 ai 100 dollari. Inaccessibili per gli afghani meno abbienti che si devono accontentare delle vedove con burqa. Un altro paradosso di Kabul. La maggior parte delle donne che ancora portano ancora il burqa, ormai una minoranza, lo fa per «convenienza»: per sfuggire al controllo familiare, come è successo durante le elezioni, oppure per nascondere la povertà sempre più diffusa di chi è costretto a chiedere l’elemosina per strada o davanti alle moschee, oppure a vendere chewing gum ma anche, per lo stesso motivo - sbarcare il lunario - a prostituirsi. Sesso per i locali, per pochi soldi. Nulla a che vedere con la prostituzione per gli stranieri. E con il burqa la faccia è salva.

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