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49 anni fa...l’inizio della fine della dittatura somozista

Publie le domenica 25 settembre 2005 par Open-Publishing

Dazibao America Latina Storia Giorgio Trucchi

Verso il 50esimo anniversario della morte di Rigoberto López Pérez

di Giorgio Trucchi

Sono passati 49 anni da quel 21 settembre del 1956, quando il giovane poeta e militante Rigoberto López Pérez prese tra le sue mani il proprio destino e quello del Nicaragua e giustiziò il dittatore Anastasio Somoza García, assassino del General Sandino e primo anello della "Estirpe sangrienta", che venne finalmente sradicata per sempre dal Nicaragua grazie alla Revolución Popular Sandinista il 19 luglio del 1979.

Furono quasi 50 anni di feroce dittatura in cui la famiglia Somoza, con il beneplacito e l’aiuto incessante degli Stati Uniti, mantenne la popolazione nicaraguense nella repressione e nell’umiliazione e s’impadronì delle risorse economiche dell’intero paese.

In questo 49esimo anniversario e dopo che i nuovi governi neoliberisti succedutisi dopo la sconfitta elettorale del Frente Sandinista nel 1990 avevano tolto il nome di Rigoberto López Pérez da scuole, edifici e centri sportivi, come tentativo di cancellare la memoria storica di questo Paese, il Comune di Managua ha posto in questa ricorrenza la prima pietra di quello che sarà il monumento in onore di Pérez.
Entrando nel 50esimo anno dalla sua morte, lo scrittore ed analista politico, Aldo Díaz Lacayo, ricorda quel gesto che fu "l’inizio della fine della tirannia".


Solo con sé stesso. Come è sempre stato. Perché da bambino era timido, scontroso, assorto, un po’ mistico, e per questo motivo anche riflessivo.
Per alcuni anni meditò a lungo sulla liberazione della sua Patria, Nicaragua.
Per lo meno a partire dalla ribellione dell’aprile del 1954, o meglio dal massacro dell’aprile del 1954 e dalla sequela altrettanto brutale di repressione ed espatrio, che riaffermò con il suo esilio volontario nel Salvador.

Giunse allora alla conclusione che lo tormentò durante tutto questo tempo: giustiziare il tiranno, liquidarlo per iniziare "il principio della fine della tirannia", come lui stesso qualificò la sua azione, perché era cosciente che la morte del tiranno non implicava la fine della tirannia - come erroneamente molti gli attribuiscono. Un tormento che non sapeva come vincere, fino a che finalmente scoprì il modo.
Ed è che in mezzo alla sua solitudine e nonostante la sua timidezza trovò nello sport - nel baseball che è lo sport nazionale del Nicaragua per transculturizzazione - una forma paradossale di socializzare nell’anonimato.

Perché tra sportivi dilettanti normalmente non ci sono stelle e naturalmente perché la sua personalità lo rendeva immune all’euforica passione che produce inevitabilmente lo sport, anche se di dilettanti. Così conobbe gli esiliati nicaraguensi in El Salvador, politicamente attivi, che riempivano il loro impegno per la libertà del Nicaragua con la cospirazione, quasi sempre ingenua, improduttiva, ma che li consumava sempre.

Allora si rese conto che il suo amore per la Patria era infinitamente maggiore della sua innata timidezza. E la vinse. Decise di condividere la sua intima decisione con quel gruppo di esiliati che come prima reazione si spaventarono e tentarono di dissuaderlo.

Non perché non fossero d’accordo, bensì perché erano assolutamente sicuri che l’azione implicava il sacrificio della sua vita, la sua immolazione, con il rischio inoltre di non raggiungere il suo obiettivo. Ma li convinse ed ottenne il loro totale e conspirativo appoggio.

Un appoggio che per la natura individuale e la grandezza incommensurabile della sua azione risultò più timido della sua timidezza: insegnargli a sparare fino a trasformarlo in un cecchino e aumentare il potenziale politico della sua azione mettendolo in contatto con alcune personalità all’interno del Nicaragua, che per paura e sfiducia risultarono poi sfuggevoli, ma che comunque furono vittime ugualmente della repressione e dell’invio alla Corte Marziale insieme a centinaia di connotati oppositori di tutti i settori.

E finanziare i suoi tre viaggi a Managua, l’ultimo il 5 settembre, per decidere il posto dell’azione e ottenere una minima base di appoggio logistico per portarla a termine - che non era determinante per lui e che alla fine fallì perché risultò impossibile la sua organizzazione.

Alla fine sarebbe rimasto nuovamente da solo, come era sempre stato durante la sua breve vita: ventisei anni in quel momento.

La prima data che scelse fu il 14 settembre. Voleva che la sua azione coincidesse col Centenario dell’effemeride più importante della Patria, dopo l’Indipendenza, e data inaugurale della Guerra Nazionale.

Approfittando dell’apertura del posto che aveva scelto per le attività preparatorie alla commemorazione del Centenario, si fermò e ricontrollò accuratamente, palmo a palmo, il terreno della vecchia tenuta di San Jacinto e lo scartò. Non era l’ambiente adeguato, troppo aperto per un’azione che richiedeva vicinanza con il tiranno, il suo unico obiettivo.

E benché non fosse nei suoi piani, perché non soffriva nemmeno del provinciale orgoglio localista, la vita l’obbligò a portare a termine il magnicidio in Leòn, la sua città natale.

Lì era sufficientemente conosciuto per la sua inclinazione alla letteratura, che riusciva a soddisfare con regolari contributi ai giornali e riviste di Leòn e con i quali si era guadagnato la qualifica di poeta - tra il lodevole e il dispregiativo in un paese dove abbondano coloro i quali lottano onestamente e non riescono ad esserlo, vittime della sindrome del "compaesano inevitabile", del mostro della letteratura castigliana, di Rubén (Darío).

Sette giorni dopo la data inizialmente decisa, nella Casa del Obrero di León, dove il tiranno celebrava anticipatamente la sua prossima rielezione con un ballo di gala, ma popolare; in una data che nonostante sia registrata nell’inconscio collettivo nazionale molto poca gente ricorda, e che solo il governo della rivoluzione ha rivendicato - risvegliando diffidenze, magari perché si vide obbligato ad appropriarsi del suo eroismo -, il 21 settembre del 1956 entrò pienamente nella storia moderna del Nicaragua, offrendo anche la sua vita.

Chi rivendicherà e come si commemorerà il Cinquantenario "dell’inizio della fine" il prossimo anno?

Sarà possibile costituire un’istanza nazionale pluralista con questo proposito?
Ci sarà qualcuno che oserà fondere questo Cinquantenario con i 150 anni dalla Battaglia di San Jacinto, della Guerra Nazionale, come lui voleva?
Che cosa farà questo governo? E la Asamblea Nacional che sarà presieduta dal Partido Liberal Constitucionalista?

Che cosa faranno i poeti con questo poeta dell’eroismo? Sarà l’occasione per rivendicare definitivamente il 21 di settembre come effemeride nazionale, o sarà causa di una nuova e più radicale polarizzazione politica a danno della sua memoria? Quanto inciderà su questa alternativa il processo elettorale del prossimo anno?
C’è ancora tempo, un anno a partire da ora, per rispondere con senso storico a queste e tante altre domande che propone la commemorazione del Cinquantenario della sua azione eroica.

Per trasformare quindi la commemorazione di questa data in un ritrovo nazionale, perché alla fine è da lì che inizia la storia moderna del Nicaragua.
Per ratificare, tutti insieme, Rigoberto López Pérez come Eroe Nazionale.

(Aldo Díaz Lacayo)