Home > Bush, i fischi di un continente

Bush, i fischi di un continente

Publie le lunedì 7 novembre 2005 par Open-Publishing

Dazibao Economia-Budget Governi America Latina USA

di Maurizio Chierici

Per la prima volta nella storia delle assemblee che riuniscono i paesi dell’America Latina il documento finale accoglie due tesi, una contro l’altra. E per la prima volta i protagonisti se ne vanno, evitando di ascoltare la lettura di un testo che sbriciola promesse e speranze. Ma un punto d’incontro c’è: mai un presidente degli Stati Uniti ha riunito l’intero continente in un solo sentimento, il disprezzo popolare. Roboante, isterico, esagerato, inquinato da veleni pericolosi, eccessivo nell’improprietà, ma condiviso dalle folle argentine, brasiliane, di Caracas e di Città del Messico.

Gli stessi cartelli attraversano in un lampo 12 mila chilometri di malcontento. 220 milioni di emarginati in una regione tra le più ricche del mondo fanno pensare ad una sterminata periferia disposta a bruciare le strategie dei palazzi dove l’alchimia dei neo conservatori programma la loro infelicità.

Ricordava Pier Paolo Pasolini: «Il centro di ogni città è un padre autoritario, la periferia madre emarginata». Il viaggio di Bush ha fatto il miracolo del sincronizzare le rabbie di periferie lontane esaltando involontariamente portabandiera a volte impropri e non sempre adeguati a risolvere il dramma. Ma è più facile parlare con la pancia alle pance vuote che distillare ricette incomprensibili a chi paga ogni giorno i disastri del liberismo. Con lo sguardo malinconico Bush riparte ammettendo sobriamente la sconfitta nel congedo da un Kirchner, padrone di casa non riguardoso. «La ringrazio per l’accoglienza perché so com’è difficile accogliermi di questi tempi». Kennedy, Carter e Reagan, i tre presidenti democratici che nell’ultimo mezzo secolo avevano attraversato l’America Latina, erano tornati a Washington ripetendo altre parole: «Chiediamo perdono».

Il confronto di Mar del Plata si è lasciato trascinare nel balletto dei dispetti, piccoli e importanti. Fox, presidente messicano, spalla di Bush, dopo aver ascoltato il duro discorso di Kirchner, snobba il pranzo di gala. Anche la signora Bush non si fa vedere. «Sta poco bene?», curiosità ironica della signora Kirchner infastida dallo sgarbo al protocollo, insopportabile per lei senatrice e moglie «che porta i pantaloni». No, risponde il Bush provato: «Oggi ricorre il ventottesimo anniversario del nostro matrimonio, e vuol festeggiare». «Da sola?». «Con le amiche». Coriandoli marginali di un imbarazzo temuto e in fondo previsto anche se non in questa dimensione. Allora perché Bush ha sfidato il disastro?

SOVRANITÀ L’Alca è il contenitore chiave col quale gli Stati Uniti vorrebbero di difendere la lunga sovranità sul continente latino. Mercato di libero commercio che annulla le frontiere permettendo al primo paese del mondo di dominare, dall’Alaska alla Terra del Fuoco, mercati e popolazioni molto giovani, davvero il nuovo mondo, purtroppo disastrato. Paesi dalle risorse infinite: agricole, minerarie, energetiche, ambientali e il 23 per cento dell’ acqua dolce del pianeta, bene ormai prezioso più del petrolio; paesi le cui esportazioni di grano, carne, soia e ogni altro cibo, con l’Alca non potranno varcare la frontiera dell’altra America. Lo impediscono protezionismo e sovvenzioni di Washington ai propri produttori. «O si cambiano le regole o l’Alca diventa la trappola che aumenta la distanza tra noi e il supermondo Usa», sintesi del «no» del presidente argentino sostenuto da Brasile, Uruguay, Paraguay, Cile, per non parlare del Venezuela il quale sta ideologicamente inventando un mercato bolivariano.

CINA Eppure era necessario sottoporsi alla gogna diplomatica e popolare di Mar del Plata per tentare l’improbabile rovesciamento d’opinione da parte di chi sta solo facendo i conti. «L’Argentina perderebbe 126 milioni di dollari l’anno restando dipendente e periferica sul piano industriale, quindi soggetta alle intemperie di Fondo Monetario, Banca Mondiale estensioni delle strategie Usa»: Kirchner lo ripete pubblicamente davanti a Bush il quale sembra non capire ed ha un sussulto solo quando il padrone di casa cita un passo della Bibbia. Era necessario tentare perché, loro, i latini, per il momento restano un pericolo veniale mentre si annunciano tempeste più disastrose. La presenza cinese alimenta l’indipendenza ancora vaga nelle strategie economiche di una regione alla ricerca di aperture finora negate. Da sei anni, 1800 ricercatori analizzano a Pechino risorse e prospettive del continente latino, mentre migliaia di operatori lavorano sul campo. Le prime «collaborazioni» tra Cile, Argentina, Brasile, Venezuela e Cuba elencano investimenti cinesi in miniere, servizi, joint venture bancarie; permettono lo sviluppo di industrie sofisticate e la realizzazione di opere gigantesche: oleodotti e gasdotti che dal Venezuela, attraverso la Colombia, arriveranno al Pacifico per accorciare il viaggio delle petroliere verso i mercati cinesi.

BANDIERE ROSSE In dicembre cominciano le elezioni che nel ’96 ritoccheranno la geografia politica del continente. Il Cile sostituirà Lagos con la signora Bachelet, sempre socialista. Evo Morales, leader ultras dei cocaleros, è il probabile presidente della Bolivia dove sono sepolti i più importanti giacimenti di gas del mondo. Ecuador e Venezuela confermeranno il voto a sinistra ed anche nel Nicaragua degli scandali i notabili conservatori sembrano battuti. La partita importante si gioca in Messico: Fox non ha eredi dalle spalle robuste e il sindaco progressista di Città del Messico per il momento è favorito: un cambiamento traumatico alle porte degli Stati Uniti. Solo la Colombia di Uribe potrà consolare la strategia Usa. Lula é un discorso a parte: se arriva alle elezioni non dovrebbe avere problemi. Ecco spiegata la fretta di Bush. Strappare l’accordo sull’Alca voleva dire ipotecare l’impegno dei governi che arrivano, rispettosi ma sulla carta non proprio alleati al guinzaglio.

AMICI E NEMICI L’analisi storica del disastro del vecchio modello reganiano è inquietata da una constatazione elementare: il liberismo funziona solo se tutelato da governi autoritari, meglio se militari. Era l’altra America, alte uniformi e colpi di stato, ad illudersi sull’eternità di una formula che falimenti, instabilità, miseria e rivolte hanno lentamente cancellato. Il parallelo Cile -Argentina ne è la prova. Il Cile soffocato da Pinochet è stato il laboratorio ideale che per vent’anni ha illuso i Chicago’s boys. Ma il disastro dell’Argentina di Menem dove il il liberismo è finito nelle mani di un mercante rapace, abile nel soffocare la giustizia, ma impossibilitato a ricorrere alle polizie di un paese vaccinato dagli orrori della dittatura appena tramontata; il disastro, ha messo a nudo l’impossibilità di far convivere l’economia delle Borse e delle banche con le necessità quotidiane delle persone. Le operazioni segrete di Negroponte appena autorizzato da Bush a rinverdire gli intrighi di ieri, possono andar bene nel caos iracheno, nella speranza eternamente rimandata in Medio Oriente, non in un’America Latina ormai appartata e lontana dagli incendi accesi da Bush attorno ai petroli del mondo. Sta scoprendo la noiosità della democrazia nei gironi ancora soffocanti della corruzione. Ma il Cile è un esempio diverso, socialismo finalmente concreto nella determinazione della modernità dei mercati; l’Argentina ci sta provando, anche il Brasile non nasconde i peccati e li affronta in una crisi pubblica come mai era successo. Bush vorrebbe subito spegnerla perché Lula e il paese-continente sono parte della strategia della stabilità indispensabile all’economia del Nord.
Ecco la curiosità del ritorno a casa di un presidente umiliato. Faccia faccia a Brasilia con l’oppositore più serio dell’Alca. Lula non lo seppellisce come Chavez. ma non accetta il mercato così come Washington lo ha confezionato. Non solo ha pianificato i rapporti con Cina, India e paesi arabi, ma usando l’autorità del paese più importante ha reso insormontabile l’opposizione light. Inutilmente gli Stati Uniti raggranellato 26 consensi fra i paesini dei Carabi, nazioni che sprofondano nei debiti e il Fox messicano al tramonto. Il «no» delle nazioni legate al Mercosur, grande tradizione e cultura seria, gli è stato fatale. Il risveglio dopo la notte a Brasilia deve avergli fatto capire com’è cambiata l’America-cortile-di-casa: si preparava a discorrere amabilmente col presidente Lula, mentre il Pt partito di Lula e il sindacato inventato ed animato da Lula, riempivano le strade dei soliti cartelli: Bush fascista, Bush torna a casa. I contrasti tra potere e la folla restano il sale di ogni democrazia. Ancora più curiosa l’ultima tappa a Panama, ospite del presidente Torrijos, figlio del generale Torrijos il quale si è ripresa la sovranità sul Canale quando Carter era presidente, e del quale Reagan e Bush padre, vice direttore Cia, in campagna elettorale ne annunciavano la fine subito dopo la conquista della Casa Bianca. Hanno vinto e tre mesi dopo l’aereo di Torrijos salta in aria e il generale Noriega, agente Cia, e autore dell’attentato, viene riconosciuto presidente mettendo fuori legge il partito del presidente appena ucciso. Per Bush figlio ritorno senza gloria; la notte di Panama non sarà allegra. Chissà cosa dirà all’altro figlio. Ne riparleranno fra un mese ad Hong Kong, ancora tutti assieme, riunione sul commercio mondiale. Sempre l’Alca sul piatto con la Cina padrona di casa

mchierci2@libero.it

http://www.unita.it/index.asp?SEZIO...


http://www.edoneo.org