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Dio non è morto. Una favola non muore mai

Publie le lunedì 28 marzo 2005 par Open-Publishing
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Rivendicare l’ateismo contro il dominio delle religioni. Un libro di Michel Onfray, filosofo e fondatore dell’Università Popolare di Caen, pone la necessità di un nuovo laicismo

di Chiara Ristori Parigi

Nel paese dell’Illuminismo, inventore della laicità, la parola ateo suscita nuovamente il dibattito. Rivendicare e ripensare l’ateismo, in Francia come in un mondo in cui incessantemente si invoca dio per uccidere il prossimo, giustificare la propria identità o legittimare una missione, significa per alcuni intellettuali militare attivamente contro le guerre di religione che non hanno finito di devastare il nostro tempo. Occorre prendere posizione contro «la miseria spirituale che genera la rinuncia a sé, l’evidenza di un’alienazione». Sono le parole di Michel Onfray, filosofo, fondatore e animatore dal 2002 dell’Università Popolare di Caen. Autore di una trentina di libri nei quali formula un progetto di etica edonista, Onfray ha recentemente pubblicato un Trattato di ateologia, formidabile pamphlet per un ateismo argomentato, costruito e militante. Un libro di un’efficacia straordinaria e di grande coraggio.

Ma quanti sono, gli atei di Francia? E perché "ateologia" e non ateismo? In un sondaggio ufficiale, pubblicato su giornale La Croix nel dicembre 2004, i francesi sono stati interrogati sulle loro pratiche religiose, senza che "ateismo" figurasse come categoria: 27% degli interpellati hanno potuto definirsi "senza religione", ma non proclamarsi atei. Cioè, etimologicamente e dichiaratamente "senza dio". Prefisso privativo, definizione negativa, Onfray sottolinea come l’ateo sia percepito dai credenti come un individuo «incompleto, amputato, un’entità a cui manchi dio per esistere veramente». Da qui la necessità di recuperare, rifondare il concetto per costruire un’ateismo positivo e rivendicato. Occorre riconciliarsi con un termine per farne la cifra di un impegno. Onfray opta allora per l’ "ateologia", neologismo coniato nel 1950 da Georges Bataille, autore della Somme athéologique. E sceglie di iscriversi in un percorso che ha preso inizio nel 1729, allorché il primo ateo dichiarato, non un filosofo ma... un curato, l’abbate Meslier, scrisse nelle Ardenne Francesi il suo testamento, annunciando «dimostrazioni chiare ed evidenti della vanità e della falsità di tutte le divinità e di tutte le religioni del mondo». A Onfray il compito di proseguire la lotta contro «tutte le religioni del mondo», e con esse gli inevitabili integralismi, fondamentalismi, sette, fanatismo, terrorismo.

«I tre monoteismi, animati da una stessa pulsione di morte genealogica, condividono una serie di disprezzi identici: odio della ragione e dell’intelligenza, della libertà, di tutti i libri in nome di uno solo, della vita, della sessualità, delle donne e del piacere, del femminile, del corpo, dei desideri, delle pulsioni. Al posto di tutto ciò, ebraismo, cristianesimo e islam difendono la fede e la credenza, l’ubbidienza e la sottomissione, l’inclinazione per la morte e la passione per l’aldilà, l’angelo assessuato e la castità, la verginità e la monogamia, la sposa e la madre, l’anima e lo spirito. La vita crocefissa ed la celebrazione del non essere...». Onfray denuncia l’operato di coloro che in nome della propria angoscia esistenziale personale si arrogano il diritto di gestire le anime ed i corpi altrui, coloro che tentano di risolvere la pulsione di morte che li tormenta deviandola sul mondo e contaminando l’universo. Coloro che organizzano il mondo per se stessi e per gli altri in conseguenza di una «patologia mentale personale», che volendo evitare la negatività, la diffondono e finiscono per generare epidemie mentali. La religione è un sotterfugio, e dio è stato fabbricato dagli uomini per scongiurare la nostra paura della morte, per rendere possibile il nostro quotidiano cammino verso la morte. Ma non si può far morire dio. E’ necessaria un’alternativa.

Se in filosofia, alla fine del XIX° secolo, con l’affermarsi del razionalismo, dei progressi scientifici e della psicoanalisi, ci fu un tempo l’epoca della "morte di dio", la nostra, secondo Onfray, sarebbe piuttosto quella del suo ritorno. Perché «dio non è né morto né moribondo-contrariamente a quanto pensano Nietszche e Heine.» Dio non è mortale, poiché «una finzione non muore». Un’illusione non decede mai, una fiaba per bambini non può essere confutata. Al bisogno di favole che riempiano una funzione consolatoria Onfray oppone la filosofia, come già lo fecero Seneca, Marco Aurelio ed Epicuro, sul modello dei grandi saggi del mondo antico: la santità è irragiungibile e genera frustrazioni, il pensiero e la saggezza no. A riprova, L’Università popolare di Caen, dove Onfray anima da tre anni lezioni aperte a tutti, a testimonianza di come ateismo non sia nichilismo, al contrario. Non credere in dio non significa non credere a nulla. «Non sono contro i miti, sono contro il fatto che ci si creda (...) Creiamo dunque dei miti federatori, fabbrichiamo favole, comprese quelle politiche, musicali, letterarie, ma soprattutto, non crediamoci!».

L’assoluta impossibilità di credere in dio, quando non si creda più alle fiabe, quando si sia veramente adulti, è ribadita anche da Salman Rushdie, uno dei numerosi intellettuali ad intervenire nel dibattito, fra i quali Michel Guerin, autore di un La pitié, Apologie athée de la religion chretienne edito da Actes Sud, e Régis Debray che pubblica per Fayard Les communions humaines, Pour en finir avec la "religion". Esprimendosi sull’argomento nelle colonne di Libèration con un editoriale dal titolo esplicito "La religione, cattiva consigliera di Stato", Rushdie lancia una veemente esortazione affinché i singoli rilevino la sfida lanciata dallo «spettro vociferante e oppressivo» della religione, quella stessa «ombra spettrale» che sedici anni fa scatenò la fatwa contro di lui, e che oggi ci minaccia tutti. Se Rushdie non evoca a nessun momento il concetto di ateismo, ma preferisce parlare di «laicità europea», il suo messaggio resta non di meno esplicito, e la sua posizione inequivocabile. «La verità è che, ovunque la religione sia al potere, è la tirannia che si insedia, l’inquisizione, i talebani». Oltre questa affermazione perentoria, Rushdie avanza «l’argomento supremo in favore della laicità» (Onfray direbbe dell’ateologia), che in italiano suonerebbe: «Non credo in dio, perché non credo nella fata dai capelli turchini...».

Ed è precisamente in merito di ateismo e laicità che divergono le posizioni di Rushdie e Onfray. Rushdie ribadisce che sia giunto il momento di mettere in guardia l’opinione pubblica contro la perdita di quei principi di laicità che dovrebbero presidiare ogni democrazia degna di questo nome: «Attualmente in America qualsiasi individuo - uomo o donna, omosessuale, di origine afro-americana, ebrea - può ambire ad accedere ai più alti gradi della funzione pubblica. Ma un ateo dichiarato non avrebbe assolutamente la minima probabilità di essere eletto». E analizza tale situazione ricordando come, storicamente, il Secolo dei Lumi per gli Stati Uniti non abbia segnato la rottura col pensiero religioso, ma al contrario un momento di slancio verso la fede, l’inizio di fuga verso la libertà di culto del Nuovo Mondo.

In Europa le cose dovrebbero andare diversamente, l’Illuminismo ha segnato un momento fondatore dell’ateismo, facendo della ragione e del pensiero filosofico un’arma contro le «favole consolatorie». Onfray ci richiama a questa realtà storica, e ci esorta ad andare oltre la laicità, in quanto il pensiero laico non sarebbe un pensiero decristianizzato, ma una cristianità nell’immanenza, in cui la quintessenza dell’etica giudeo-cristiana persisterebbe sotto le false spoglie di un linguaggio razionale. «Lavoro, Famiglia, Patria, santa trinità laica e cristiana...». Onfray ci invita a combattere il relativismo laico per il quale tutto è equivalente, tutte le religioni le credenze i pensieri si valgono - ma non valgono forse tutti allo stesso modo - invocando un’ateologia che ci riconcili con la vita, il piacere, la gioia, e non neghi nulla della vita, neppure il tragico dell’esistenza. Il filosofo raggiunge allora l’autore dei Versetti satanici che, a sollecitare la responsabilità individuale nella lotta, riporta un’affermazione siderante di James Joyce: «Non ci sono né eresia né filosofia che esasperino la chiesa quanto un essere umano».

http://www.liberazione.it/giornale/050326/LB12D680.asp

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