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L’ onore degli operai

Publie le giovedì 6 gennaio 2005 par Open-Publishing
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Dazibao Salute Ambiente

di Gian Antonio Stella

Non li hanno ammazzati le sigarette e il cabernet, come insinuavano
certi
avvocati.

Tre anni dopo la sentenza di primo grado che aveva assolto
tutti
gli imputati, offrendo a qualche difensore lo spunto per battute oscene
tipo
«tutti moriamo, prima o poi», gli operai uccisi dal cloruro di vinile al
Petrolchimico di Marghera si son visti ieri restituire l’onore.

Il
verdetto
d’appello ha infatti rovesciato la precedente decisione condannando i
principali imputati come responsabili degli omicidi bianchi.

Un anno e mezzo a testa. Troppo poco e troppo tardi, forse. Ma quanto
basta,
col macigno della prescrizione caricato sulla reputazione di altri
dirigenti
del gruppo chimico e degli stabilimenti veneziani e con la minaccia di
risarcimenti a catena, per dar ragione al pm Felice Casson e spazzar via
la
tesi di quanti hanno giurato per anni che tutto era in ordine, in linea
con
l’indecente circolare del ’77 nella quale si diceva che, avendo
l’impresa
«come fine il profitto» era inutile esagerare con le precauzioni e le
costose manutenzioni: «bisogna correre dei ragionevoli rischi».

L’ultimo a correre quel «ragionevole rischio», che al Petrolchimico
significava essere esposti all’aggressione dell’angiosarcoma seicento
volte
più di una persona normale se lavoravi nella «coorte» del Cvm o
addirittura
seimila volte di più se avevi avuto la sorte di finire tra gli addetti
alle
autoclavi, sarà sottoposto oggi, per ordine della magistratura, a una
autopsia.

E’ morto l’altro ieri.

Prima di avere il tempo di vedere
ribaltata
quella sentenza che nel dicembre 2001 era stata salutata dai parenti
delle
vittime con lacrime e pianti e sfoghi: «Vergognatevi! Vergognatevi!»
Erano
stati 33, da Basso Olindo a Zabbeo Giovanni, gli operai aggiunti alla
lista
dei morti durante lo svolgimento del processo di primo grado.

Sono oltre una trentina quelli morti dopo l’inizio del processo
d’appello.

Un processo che più volte la difesa aveva cercato di far saltare per
tener
buono il trionfale verdetto assolutorio di primo grado. Un verdetto così
stupefacente che poche ore prima, convinti d’esser schiacciati dalle
prove e
d’andar incontro a una legnata, i legali di Montedison s’erano
rassegnati a
concordare il risarcimento danni più alto di tutti i tempi: 550 miliardi
di
lire.

Ci avevano provato, a far saltare il banco, chiedendo ad esempio di
ricusare
un giudice, Daniela Perdibon, perché quindici anni fa, da pretore del
lavoro, aveva riconosciuto le ragioni di un lavoratore addetto al Cvm:
come
poteva avere ora il necessario distacco Una domanda interessante.
Curiosamente mai posta però, nel primo processo, nei confronti del
presidente Nelson Salvarani, che di sentenze simili ne aveva emesse
cinque.

O di Antonio Liguori, uno dei giudici a latere, che quando era sostituto
procuratore aveva ricevuto la prima denuncia sugli omicidi bianchi
firmata
da Gabriele Bortolozzo, il piccolo grande eroe di questa storia,
destinato a
morire sotto un camion, e l’aveva archiviata. Così che, se avesse
riconosciuto le buone ragioni dell’impianto accusatorio di Casson,
avrebbe
in qualche modo dato torto a se stesso.

Il verdetto letto ieri da Francesco Aliprandi, che arriva dopo troppe
assoluzioni e archiviazioni ed evaporazioni umilianti per le vittime di
«tremende fatalità» del passato dovute all’errore, alla sciatteria o al
cinismo umani, è per molti aspetti storico. E non solo perché apre
inimmaginabili varchi alle eventuali richieste di risarcimento della
Regione, della Provincia, del Comune, dei parenti degli operai morti
rimasti
come parti civili.

E’ un verdetto che butta là dove andavano buttate certe tesi difensive
(c’è
chi ha vantato la bontà delle vongole alla diossina) sulla «modesta
pericolosità» di certe lavorazioni chimiche che nei decenni hanno
causato
danni enormi a una realtà delicatissima e unica al mondo quale la laguna
di
Venezia, dove soltanto dal 1984 al 1997, dopo che già erano entrate in
vigore varie leggi ambientali, vennero scaricati in 5,1 miliardi di
metri
cubi di acqua inquinata, pari a 12 volte il volume dell’intero bacino.

Che
chiude definitivamente le polemiche su casson che, reo d’aver detto a
caldo
dopo l’assoluzione generalizzata che si trattava d’«una sentenza che si
commenta da sola», era finito nel mirino di un’azione disciplinare
disposta
da Roberto Castelli il quale, vista bocciata la sua iniziativa dal Csm,
aveva insistito facendo ricorso in Cassazione.

Che premia le battaglie
di
chi, come gli animatori del sito www.petrolchimico.it, hanno impedito
per
anni alla polvere di posarsi sui fascicoli pubblicando parola per parola
ogni minimo dettaglio del processo.

Che conforta tutti coloro che hanno
scovato, uno dopo l’altro, documenti raggelanti, come il bollettino
interno
che dimostra come ancora nel 1985 (a dispetto di chi ha sostenuto che la
pericolosità dei reparti omicidi era stata «quasi annullata» nel 1973)
la
Montedison sapesse che la concentrazione di piombo era 2091 volte
superiore
al lecito.

Per non parlare dello smascheramento dei cosiddetti
«controlli».

Come l’uso del «gascromatografo», un apparecchio che doveva vigilare sul
livello dei gas liberati nell’aria dal Cvm e dar l’allarme in caso di
fughe:

gli allarmi erano una rarità, ma per un motivo preciso: la macchina era
stata tarata in modo tale da cogliere solo un decimo delle emissioni.

Ma più ancora, come dicevamo, è una sentenza che restituisce l’onore,
sia
pure troppo tardi, a uomini come Ennio Simonetto, uno dei tanti operai
uccisi dai veleni.

Lavorava alle autoclavi, i giganteschi «pentoloni»
dove
le micidiali sostanze erano «bollite» per fare il Cvm (cloruro di vinile
monomero), il prodotto base per la plastica.

Uno di quelli che, finita
la
lavorazione, entravano tra esalazioni da svenimento nei recipienti, per
«togliere le croste».

Una operazione così rischiosa che i poveretti
picchiavano le pareti con martelli di bronzo: fosse partita una
scintilla
sarebbe saltato tutto in aria.

Al primo processo, a sentire certi
avvocati
della difesa, pareva quasi che fosse stato ucciso dal vino e dalle
sigarette. Non beveva. Non fumava.

Ed era morto dopo un’agonia dei mesi,
durante i quali era stato sottoposto a ripetute visite fiscali.

Uno dei
dirigenti aveva infatti spiegato al Gazzettino che lui sapeva bene
perché
tutti quegli operai andavano in malattia: «sono degli scansafatiche»,
«assenteisti», «vagabondi»...

http://www.isinsardegna.it/modules.php?name=News_Pro&file=article&sid=2149

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