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La lettera che Fausto Bertinotti invia alle donne dell’Unione

Publie le martedì 2 agosto 2005 par Open-Publishing

Dazibao Elezioni-Eletti Partito della Rifondazione Comunista Parigi

di Fausto Bertinotti

Cinquanta deputate dell’Unione hanno inviato a tutti i segretari dei
partiti dell’Unione una lettera di protesta che chiede ­ e merita ­ una risposta non formale e anzi massimamente impegnativa. Mi proverò a farlo, consapevole della parte di responsabilità che spetta a
Rifondazione comunista e anche a me personalmente: giacchè sulla
presenza delle donne nella politica, sulla questione di genere, nessuna forza può essere davvero “al riparo” da contraddizioni, errori o distrazioni poco perdonabili, anche quando, come il Prc, si sforza da anni di promuovere pratiche innovative proprio in questa direzione. E nessun dirigente (maschio) può pretendere di essere assolto, in partenza, dai suoi vizi (o comportamenti) maschili, anche quando prova da anni ad essere interlocutore appassionato del femminismo, e delle sue culture.

In questa circostanza, mettersi in causa è però anzitutto un dovere
politico e strategico. Se il seminario tutto al maschile di San Martino in Campo fosse solo un episodio casuale, o circoscritto, potremmo limitarci ad esprimere un forte rammarico autocritico ­ e a impegnarci, per il futuro, ad essere più attenti e avvertiti. Se la politica, la politica che conta, fosse fortemente segnata dalla presenza delle donne, potremmo perfino archiviarlo, quell’incontro, come uno dei tanti eventi di cattivo gusto che popolano il panorama. Ma sappiamo bene che non è così. E che anzi San Martino in Campo è un prisma a suo modo esemplare del rapporto che oggi corre, in Italia, tra le donne e la politica. In realtà, questo rapporto è nutrito di discriminazione, marginalizzazione, esclusione: ciò che non è certo il frutto di volontà dichiarate o di posizioni ideologiche. Esso si manifesta soprattutto nel corso dei meccanismi ordinari, cioè nella “normalità” della attività politica dei partiti, delle istituzioni, delle coalizioni: ecco ciò che rende la contraddizione più insidiosa e anche più difficile da affrontare. Esso mette a nudo, suo malgrado, i limiti strutturali, la povertà, della politica attuale: la sua misoginia, consapevole o inconsapevole che sia.

Per estirpare questa natura misogina della politica, e per non ridurci a pratiche puramente “emendative”, sarebbe necessaria, in realtà, una terapia d’urto. Un mutamento radicale, anche nel volto pubblico della nostra alleanza. Per esempio: nella futura compagine di governo, non una maggiore inclusione delle donne, ma l’attuazione piena della norma antidiscriminatoria, secondo la quale nessun sesso può essere rappresentato al di sotto del cinquanta per cento. Un governo dell’Unione che vedesse la metà delle donne tra i suoi ministri e viceministri sarebbe, in Italia, un fatto straordinario. Una forzatura? Sì, certo, una forzatura alla quale l’Unione non è forse oggi disponibile, anche per la sua natura plurale e disomogenea delle culture politiche che la animano. Ma, anche, come è successo in Spagna, anche un’operazione simbolica di grande valore, che potrebbe tentare per questa via non di risolvere il problema delle relazioni tra i sessi, ma di porlo su di un piano più avanzato di civilizzazione.

In ogni caso, si tratta di aprire un processo di discussione e confronto, che non releghi la “questione femminile” nel cesto delle “opportunità” sempre aggiuntive, mai realmente urgenti. Essa deve cioè diventare una delle priorità vere della politica dell’Unione. C’è anzitutto una contraddizione flagrante, cocente, da sanare: alla
misoginia della politica del presente, corrisponde la forza crescente delle donne nella società, nei più diversi campi della vita sociale e civile, insomma quella che è stata giustamente definita “la rivoluzione più lunga”. Mentre la soggettività femminile, con le sue istanze di emancipazione, liberazione, autodeterminazione, mette a nudo l’insostenibilità degli attuali rapporti (capitalistici) di produzione, la politica tende, se mai, ad accentuare il suo carattere monosessuato e a ridurre ai minimi storici la presenza delle donne nelle sedi istituzionali e di rappresentanza. E anche all’interno dei movimenti (certo del movimento no global) la tendenza dominante appare quella di un “primato maschile”, nella leadership e nella rappresentazione mediatica. Perchè? In tempi relativamente recenti, due diversi fattori sono intervenuti ad alimentare questa tendenza regressiva.

L’uno è la crisi della politica: l’introduzione del sistema maggioritario e bipolare, intrinsecamente fondato sulla leadership e sulla competizione individuale, ha accentuato, drammaticamente, la frattura tra politica e vita reale, e ridotto la politica, tendenzialmente, a lotta per il potere. Un meccanismo, potremmo dire, di “militarizzazione” e bellicizzazione, la cui prime vittime sono la partecipazione di massa e la presenza femminile nelle istituzioni. Via via che la politica diventa simile alla guerra, le donne ne sono spinte e tagliate fuori: ne diventano “estranee”, in forza della brutalità di una selezione che esclude da sé, in partenza, tutti i soggetti “fuori canone”. Tra le vittime obbligate, c’è quindi la presenza femminile nelle istituzioni rappresentative e in tutti i luoghi decisionali. L’altro fattore è l’ondata oscurantista, neoconservatrice, portata avanti anche da una parte consistente delle alte gerarchie ecclesiastiche, che, in nome di
un preteso “diritto naturale”, tende a risospingere l’insieme della
società verso un rigido ordine tradizionale, anche e soprattutto nei
rapporti tra i sessi. Per quanto possa apparire un obiettivo fuori dal tempo e dalla modernità, la libertà delle donne diventa perciò un bersaglio privilegiato, all’interno di un’offensiva culturale, e di valori, che mette in causa il carattere laico dello Stato ­ e, di nuovo, della stessa politica.

Dunque, la contraddizione di genere, in quanto attiene al punto
più alto del conflitto di civiltà che oggi stiamo vivendo, non è
separabile dal tema cruciale della politica: del senso e della qualità della politica. Dal processo di mutamento, oltre l’alternanza, che dobbiamo esser capaci di avviare ­ come sinistra, come coalizione progressista, come Unione. E da quella Grande Riforma della politica, senza la quale il nostro successo, se sarà, rischierà di essere effimero. Una politica che non sia attraversata davvero dai due sessi, che non moduli i suoi programmi sulle istanze, i valori, le culture femminili, che non cerchi di modificare se stessa in direzione radicalmente democratica, oltre le eventuali volontà di includere o cooptare un maggior numero di donne, rischia di perdere la sfida di quel nuovo corso di cui l’Italia ha bisogno.