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Storie dalle città di Dio

Publie le lunedì 31 gennaio 2005 par Open-Publishing

Dazibao Guerre-Conflitti Internazionale medio-oriente Enrico Campofreda

di Enrico Campofreda

La resistenza di Louis

Louis ha fisico, abiti e basco da popolano annicinquanta, e un nome francese. Sarebbe perfetto al fianco di Jean Gabin in uno dei noir su mala e grisbi. Si muove con sicurezza e disinvoltura, è padrone della sua Bethlehem, ma Bethlehem è solo teoricamente sua e degli altri quarantamila arabi che la abitano. Bethlehem diventa sempre più riserva. Una riserva del popolo palestinese. L’accostamento col genere cinematografico di Gabin non tragga in inganno: Louis è un uomo probo, fa la guida turistica, parla arabo, inglese, francese e un poquinito de espanol. Ha figli da sfamare e dignità da vendere e anche se il lavoro latita in una Bethlehem diventata spettrale, Louis resiste e non è l’unico.

In tanti anche qui hanno votato Abu Mazen perché la pace significherebbe lavoro, quel lavoro turistico che è scomparso dai momenti più duri dell’Intifada che ha vissuto nella stessa chiesa della Natività una delle mille follìe dell’occupazione israeliana. Ricorderete i 241 palestinesi rifugiati dai padri francescani nello storico sito e gli elicotteri d’Israele che mitragliavano dall’alto. Una delle tante provocazioni di Sharon al mondo: i cannoni di carri e blindati puntati contro la Chiesa del Cristo, come e peggio della passeggiata sulla spianata delle Moschee. Ma al warrior - così lo celebra la pubblicistica amica - non importava nulla e ha proseguito. Oggi è contestato nello stesso Likud. Certi partiti riescono a non toccare mai il fondo.

Quei 39 giorni furono un momento di non ritorno non solo per i pellegrini che, tranne sparuti ardimentosi, continuano a tenersi lontani dai luoghi santi ma per una consistente fetta di palestinesi di religione cristiana che sono partiti e non intendono tornare. Erano dodicimila ne sono rimasti tremila circa. Louis è uno di loro. E lui sta relativamente bene: è una guida autorizzata, dall’autorità palestinese che controlla il centro della cittadina ma anche dall’autorità israeliana che controlla gli accessi alla città nei due grandi varchi creati con il Muro.

Ma se non c’è turismo, Louis non lavora e come lui nessuna guida e nessun venditore autorizzato e abusivo di carabattole per turisti. Però tutti hanno figli da mantenere e sfamare. Mahmmod che di anni ne ha sessanta anche se ne dimostra ottanta e più, dice di averne dieci pur di spacciare un crocifisso, una collanina. Per mangiare, amico, non io ma i miei figli. Poiché a ventisei anni qui di figli se ne hanno già tre, i dieci di Mahmmod ci possono stare tutti. E vai con la laica collanina.

Il Muro che avanza

Di Muro a Bethlehem il generale Yaron (fedele amico di Sharon sin dai tempi del massacro di Sabra e Shatila) ne ha fatto costruire una buona fetta, che taglia il dislivello di uno dei colli su cui si poggia la città e corre su sull’erta opposta. Grigio. Imponente. In alcuni punti svettano inquietanti torrette dalle quali non si capisce se si viene osservati, spiati o puntati dai mitra. Que mistra che i soldati con la stella hanno sempre a ‘bracciarm’ anche quando, a coppie in libera uscita, bevono un’orange juice.
Il Muro ha come altrove l’intento di separare, per far crescere la paura e con essa l’ossessione del diverso e quindi l’odio. Simone Bitton, nel suo splendido film-documentario titolato appunto “Mur” ne ha chiarito perfettamente gli intenti: dividere i due popoli per far proseguire vessazioni e guerre. Ridicole le motivazioni di sicurezza: non saranno gli otto metri d’altezza a fermare le frustrazioni di chi si vede prigioniero in case incerte e impossibilitato a viverci.

Del resto quando bambini palestinesi e israeliani, immersi completamente nei loro ambienti e con tutte le contraddizioni e i pregiudizi del caso, si sono incontrati per merito d’un giornalista ebreo-americano che ha perorato l’esperimento, s’è visto che ciascuno cerca di capire un po’ la diversità dell’altro. E rinuncia a sue convinzioni e certezze. L’esperienza filmata è passata per i programmi Rai (sgranate gli occhi, sì) in una prima serata del mese di gennaio.

Il Muro di Bethlehem ha la funzione di proteggere un enorme insediamento di coloni tutt’ora in costruzione. L’insediamento ricopre interamente un colle di fronte alla città, lì dicono ci fosse un boschetto di conifere che s’ammirava anche da una cappella un po’ in disparte frequentata dai pellegrini. Nel 1995 è iniziato il disboscamento. Tutto il colle è stato rasato. Poi ruspe e scavatrici, impalcature e cemento armato e oggi è pronta a diventare un nucleo abitativo per quindicimila coloni. Quindicimila, per ora. Vista da sotto sembra una moderna Monteriggioni, ma molto, molto più vasta e senza uno spicciolo di artisticità.

Israelizzare la Cisgiordania

D’insediamenti simili ce ne sono a perdita d’occhio quando da nord, l’antica Galilea, s’attraversa la Samaria lungo la verde valle del Giordano e ci s’avvicina a Jerusalem in Giudea. Tutti uguali: tetti e cemento, recinti e soldati, a guardia di quest’invasione di fatto d’un territorio che è sovrano solo sulla carta. E’ la tela di Penelope tessuta da Sharon: a parole si parla di diritti dei palestinesi, di fatto li s’ingabbia nella propria terra, li si soffoca in spazi sempre più angusti.

I palestinesi mussulmani o cristiani dovranno restare al di qua del Muro e presentare a ogni uscita dai check point il documento-passaporto che però non gli consente di andare ovunque. C’è chi può viaggiare solo nei paesi arabi e chi, perché studente o professionista recarsi in altri angoli del mondo. Ma nessuno può partire dallo Stato d’Israele da Gerusalemme o dall’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv. Ragioni di sicurezza preventiva lo impediscono. Così Ahmad, omino giovane col commercio nel sangue, per vendere i souvenir di legno d’ulivo in Puglia e in Molise, parte dalla Giordania o dalla Siria o arriva in autobus sino in Turchia. Gran parte del popolo non viaggia affatto perché non ha quattrini e non saprebbe dove andare.

I palestinesi di Bethlehem o quelli di Betania - il cui decumano fibrillante di commerci s’infrange inesorabilmente contro il Muro - si chiedono ormai se quella terra resterà la loro visto il disegno, neppure tanto celato, di israelizzare la Cisgiordania. A questo mira la politica pro-coloni volta a normalizzare quella presenza nei Territori. E’ il modo per far crescere paure e diffidenze, tutti contro tutti, chiusi nelle riserve create e negli steccati delle arcaiche convinzioni. E’ con questo sistema che la pace, per due popoli che non possono che vivere vicini e sovrani, difficilmente vedrà luce.

Cittadini del limbo

Samir è un milite dell’Autorità Nazionale Palestinese di cui veste la divisa bleu anche se non porta armi, destinato com’è al controllo dei turisti, i pochissimi pellegrini che riprendono i viaggi in questa parentesi di tregua. Ha modi gentili, studia economia nella locale Università, e guadagna, ma non è una certezza perché a volte i soldi non ci sono, il corrispettivo di 200 euro al mese. Che sono uno stipendio decoroso, un operaio oscilla fra quello e i 300, un professore arriva a 400. Un anziano collega di Samir avrebbe 10.000 euro (i risparmi d’una vita) da dare come anticipo per l’acquisto d’un appartamento che il Patriarcato Latino ha costruito in zona. Costo complessivo 70.000 euro, 10.000 subito e il resto a rate. Ma può impegnarsi solamente chi ha certezze economiche e sotto il Muro di certo non c’è nulla.

E poi come si fa a comperare una casa, col rischio che venga occupata dall’esercito nemico ed espropriata? Troppe questioni restano immobili come l’aria che si respira. Storie di vita dicono con Tomas, che nella gerarchia razziale sta meglio dei fratelli palestinesi perché è arabo-israeliano e vive a Nazareth, che l’ingiustizia israeliana è anche molto privata. Suo padre aveva quattro fratelli. Durante la crisi successiva alla guerra del Kippur uno fuggì in Libano e lì rimase. Tempo fa, dopo la sua morte, la parte del terreno nei pressi di Nazareth che sarebbe spettata ai parenti è stata sequestrata dall’amministrazione israeliana perché la legge non prevede alcun diritto di proprietà e successione ai profughi.

E allora c’è chi stringe i denti e non si muove. Cerca di resistere a ogni costo. Magari non in situazioni difficili come quelle del professor Mohammad Bakri mostrate dal film ‘Private’ di Saverio Costanzo, ma certamente non brillanti. E’ il caso del dottor Maher che gestisce una farmacia a Bethlehem. Uomo ancora giovane con begli occhi da Omar Shariff. Ha studiato in Italia ne parla perfettamente l’idioma. Dice che è dura anche per lui. Tenere un esercizio commerciale in un luogo dove i denari sono men che scarsi è un controsenso ma la farmacia è diventata una missione. Non far mancare i medicinali alla sua gente è diventato un senso etico e di vita. Andarsene avrebbe il sapore della sconfitta e aiuterebbe i coloni a prendersi la Cisgiordania. Se quel piano non si è ancora compiuto - e nelle promesse alle Nazioni Unite gli insediamenti dovrebbero sparire - l’attuale volto dei Territori è quello d’uno Stato palestinese dove il popolo anziché sovrano appare prigioniero.

L’economia del tugurio

Certo ci sono lande ancor più povere e degradate. Entrando a Jericho, se non fosse per alcune auto e moto e bici e i manifesti di Abu Mazen con Arafat, si sarebbe indotti a cercare con lo sguardo il famoso cieco. Il tempo è immobile, l’entità urbana inesistente: casupole, sterpi e volti che sarebbero piaciuti a Pasolini. Volti di beduini delle vicine dune presso il Mar Morto e indigenza assoluta. Omar si presta a guidare con un’auto scassata ma velocissima fra strade polverose, lui è il taxi-driver abusivo più conosciuto e tollerato della zona. Deve sbarcare il lunario per i due figli, la prole è contenuta solo perché ha venticinque anni. Aiuta la madre che sopravvive con una botteguccia di spezie e buble-gum. E commercia quel che può: collanine, gift per turisti, frutta lì coltivata (mini-banane, datteri, fichi e locali nocciole). Ma da tempo i turisti non vengono a fotografare il sicomoro, anche se non distante c’è l’area archeologica di Qumran, gestita quella dagli israeliani.

Fra i tanti tuguri e un’angosciante tendopoli guardata a vista dai soldati di Sharon a Jericho c’è anche un accogliente centro per turisti col cammello all’ingresso per la foto ricordo. Ma pochi vengono qui. E sono invece parecchi i camerieri e gli addetti al bazar che dovrebbero viverci, mentre l’attività non accenna a riprendere. Così la splendida Safaa, una delle poche bellezze potute ammirare senza chador, sorride malinconica mentre rassetta i tavoli del self-service semideserto.
Si gioca con dieci marmocchi e subito ne spuntano altri. E più si sta lì più ne compaiono. Belli come il sole, sorrisi dell’innocenza che abbracciano chi arriva neanche fosse papà Natale, visto che arriva senz’armi. Per loro siamo il mondo, in carne e ossa, perché da lì non si muovono e quel che giunge dalla tv non ha né calore né tenerezza.

Cisgiordania, 17-21 gennaio 2005