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DA SALO’ AL GOVERNO, di Francesco Germinario : Immaginario e cultura politica della destra italiana

Publie le domenica 17 luglio 2005 par Open-Publishing

Dazibao Libri-Letteratura Storia Enrico Campofreda

di Enrico Campofreda

C’è “un passato che non vuol passare” e oscilla fra la rimozione e la riedizione del fascismo che, epurato dei suoi momenti più ignobili, viene da epigoni nostalgici riciclato come Regime da bene. Il saggio dell’autore, incentrato sulla disamina di scritti e teorie di intellettuali della destra neofascista e non, compie un interessante approccio al fenomeno.

Msi: un po’ di storia

Graziata nel giugno 1946 dall’amnistia del guardasigilli comunista Palmiro Togliatti, la destra nostalgica e fascista di Salò si ritrovò nel dicembre di quello stesso anno riorganizzata in un partito: il Movimento Sociale Italiano. Un partito neofascista, assolutamente incostituzionale. Ma la real-politik, giocata principalmente sul tavolo del primo ministro De Gasperi, chiuse entrambe gli occhi credendo di evitare revanchismi e tollerando rigurgiti squadristi e nostalgie violente.

I missini si considerarono subito una forza antisistema anche se spesso furono imbarcati in alleanze politiche: coi monarchici dopo il successo del referendum pro-repubblica, con la Dc nel governo Tambroni del ’60. L’anima e la funzione anticomunista del nuovo raggruppamento politico fu ben vista e utilizzata dalla sicurezza nazionale ed estera: uomini legati al Msi funsero da informatori e agenti dei Servizi nei momenti più inquietanti del secondo dopoguerra dalle vicende del gruppo paramilitare Gladio finanziato dalla Nato, ai tentativi golpisti del ’64 e ’70 e alla “strategia della tensione”.

Questo porsi al di fuori delle logiche democratiche, disconoscendo lo status antifascista e i valori resistenziali della Costituzione repubblicana, autoescluse i neofascisti da alleanze e gestione della cosa pubblica, cui invece partecipò la destra moderata riunita nel partito liberale. Ma la continua presenza del Movimento Sociale nel parlamento nazionale (unico partito dell’estrema destra europea) e la sua diffusa organizzazione: sindacale (Cisnal), universitaria (Fuan), studentesca (Giovane Italia), sportiva (Fiamma), lo resero un universo organizzato già dagli anni Cinquanta.

Il mito di Salò e l’autoghettizzazione

Nell’immaginario politico del nuovo partito fascista i venti mesi della Repubblica Sociale hanno assunto un peso maggiore dei vent’anni di Regime. Da questa posizione si sono gonfiate le leggende dell’isolamento guerriero e l’atteggiamento autoghettizzante di chi scelse di estraniarsi da una cultura non condividendone i valori democratici. Tutto ciò è in chiara contraddizione con l’atteggiamento vittimistico assunto da alcuni intellettuali dell’area soprattutto negli anni Novanta, paradossalmente quando il rinnovato quadro politico ha spalancato loro ampi spazi su media televisivi, radiofonici e di molta carta stampata.

Il difficile rapporto con la modernità, caratteristica dell’estrema destra italiana, s’è accresciuto con una miscellanea di posizioni antitetiche e illogiche: socializzatori e difensori della proprietà privata, borghesi e antiborghesi, atlantisti e anti, cattolici tradizionalisti e acattolici. Una vera Babele politico-culturale, segno non d’una presunta dialettica pluralista bensì di demagogiche navigazioni a vista, dove ogni appiglio può diventare buono per un populismo che, vantandosi di collocarsi “oltre la destra e la sinistra”, segue la via pericolosa ed eversiva già intrapresa dai movimenti fascista e nazista.

Idee per la reazione

Mentre sviluppa la sua retorica patriottarda rivendicando l’italianità sia di Trieste sia di Bolzano e del sud Tirolo (sic!) il neofascismo intellettuale si scaglia contro l’Italia antifascista della letteratura intrisa del comunismo di Calvino e della depravazione degenere di Moravia e Pasolini. Per non parlare dei registi libertini, immaturi, faziosi come il Fellini così giudicato dal filosofo Plebe. Il teorico della destra radicale Adriano Romualdi esclude Visconti, De Sica, Germi, Antonioni dall’elenco dei realizzatori d’opere apprezzabili. Solo qualche lavoro dell’ebreo Ejzenstein viene rivalutato in base a particolari letture di pellicole come “I Nibelunghi” o “Ivan il teribile” da cui si ricava il mito della Germania nazista o “il misticismo nazionalista”.

Insomma secondo gli intellettuali svezzati nelle file del Msi la cultura del Novecento rimane ferma alla triade D’Annunzio-Pirandello-Marinetti con l’aggiunta del pensiero filosofico di Evola. E si ripescano come autori di riferimento Drieu La Rochelle, Céline, naturalmente Nietzsche, Tolkien, Pound, Maurras.

Sul fronte storico si propongono moderni razzisti come De Gobineau, Vacher de Lapouge, l’antisemita Chamberlain e Burke e Splenger. E se di quest’ultimo si legge ”ciò che abbiamo nel sangue dei nostri padri, idee senza parole, è l’unica cosa che garantisce l’avvenire” comprendiamo come non solo ogni irrazionalità possa venir sostenuta, ma in base a essa si giustificano le follìe criminali che conducono allo stermino per razza.

Secondo De Benoit “l’uomo di destra è meno spontaneamente portato a teorizzare dell’uomo di sinistra”, Antonio Romualdi gli fa il verso: “per il vero uomo di destra prima della cultura vengono i genuini valori dello spirito espressione di vita delle vere aristocrazie”. Così fra il filosofo e il letterato, il guerriero e il milite la destra non ha dubbi: scegli i secondi.

Intellettuali, vil razza dannata

Nino Tripodi, direttore de “Il Secolo d’Italia” organo del Msi, formulò un atto d’accusa contro gl’intellettuali italiani passati dal fascismo all’antifascismo “la cultura italiana non fronteggiò la dittatura fascista, lo fece a guerra compromessa”. Da Bontempelli a Comisso a Elsa Morante a Repaci. E Piovene, Ungaretti, Gatto, Quasimodo, Sapegno, Bini, Muscetta: tutti rei d’aver celebrato Mussolini e poi averlo tradito.

Una chicca dell’odio neofascista verso gl’intellettuali viene da un loro collega, il più trendy della nuova destra, quel Marcello Veneziani assurto ai vertici della Rai cameratizzata dall’attuale governo. Così scriveva, prima di finire nei salotti di Maurizio Costanzo a pubblicizzare i suoi testi “Odio gli intellettuali, questa mafia che si difende in pubblico e si detesta in privato ... Questi melliflui mercanti dello spirito ... che impiegano trenta giorni per scrivere un libro e ne passano trecento a venderlo e a pubblicizzarlo, a cercar elogi e a mendicare interviste, a brigare utili amicizie e a inseguire pubbliche occasioni”.

Alla fine per la destra l’unico intellettuale buono pare quello morto, perché “quell’atto eroico” lo riscatta come mostrano gli esempi di morte per suicidio (Drieu), per attentato (Gentile), per vendetta nemica (Brasillach).

Evola, il “Marcuse” della Destra

La copiosa bibliografia su Evola, perlopiù agiografica, è servita a costruire un mito personale del filosofo che, pur ispirando settori giovanili del neofascismo, visse un ampio isolamento nello stesso Msi prima che nel mondo culturale antifascista. Durante il Ventennio contrari al suo pensiero pagano furono i cattolici tradizionalisti, e lo stesso suo razzismo basato su una spiritualità dell’antisemitismo e il culto dell’esoterismo ne fecero un solitario esponente estraneo alla cultura del Regime. Del fascismo e nazismo Evola esaltava soprattutto i valori della tradizione e l’opposizione agli aspetti distruttivi della modernità. Tali valori s’incarnavano in un aperto e rivendicato reazionarismo “... dirsi reazionari è una pietra di prova”.

Un cruccio per il neofascismo è il mancato flirt col più dirompente movimento antisistema dell’Italia del dopoguerra: il movimento studentesco che s’attestò su rigorosi ideali antifascisti. Ci furono comportamenti diversi fra il Msi che respingeva il ribellismo studentesco e giovani militanti missini che attraverso Evola guardavano ai movimenti, pur se il filosofo dava un’interpretazione personalistica e falsata della protesta considerandola una dimostrazione di dissoluzione della modernità.

Ammetteva solo gli studi umanistici respingendo quelli scientifici “il pervertimento della cultura è cominciato con l’avvento della scienza”, seguivano una serie di luoghi comuni del conservatorismo: il ’68 era solo l’ultima filiazione del 1789, l’uomo sano è di destra e sceglie la via della controrivolta.

Il neofascismo si parla addosso

Già negli anni Sessanta i pochi intellettuali di destra (Accame, Buscaroli, Erra, Gianfranceschi) avevano esposto le proprie tesi sulle riviste dell’area: “Carattere”, “Il Conciliatore”, “Il Reazionario”, “Ordine Nuovo” ma vista l’assoluta autoreferenzialità lo stesso Romualdi affermava senza mezzi termini “... basta poco per accorgersi che a destra non c’è cultura”.

Migliore la stagione degli anni Settanta sostenuta dagli editori Rusconi e Borghese anche se l’ex marxista Plebe - promosso da Almirante a responsabile culturale del partito - si limitava a controbattere le argomentazioni della sinistra piuttosto che proporne di originali.

Giovanni Volpe, figlio dello storico Gioacchino, ebbe l’idea di chiamare a raccolta altri intellettuali conservatori e cattolici estranei a radici neofasciste coi quali lanciare attacchi allo schieramento opposto. Fisichella, Del Noce, Paratore, Ricossa vivacizzarono l’area pur mancando d’un progetto organico. Riuniva questi intellettuali il timore dell’accresciuto ruolo trainante di Pci e Sindacati nella cultura e nella società e, nonostante la presenza di soggetti liberali, si riproposero i soliti attacchi all’antifascismo, alla società permissiva, alla repubblica delle lettere.

Revisionismo al galoppo

Sulla questione del revisionismo Accame è disposto a concedere ai critici di Nolte ragioni per la deresponsabilizzazione dei crimini nazisti, lo fa per lanciare una netta distinzione fra un nazismo malvagio e un fascismo mite. Il tentativo però incespica sui richiami ideali che una parte del suo raggruppamento fa della Repubblica di Salò che del nazismo e della sua sanguinaria politica di morte fu servile alleata. Ed egualmente responsabile.

Inoltre, dopo aver per decenni sostenuto la tesi della “guerra civile” italiana per avanzare pretese sugli ideali dei vinti, la destra revisionista ha lanciato la tesi d’un movimento partigiano filo-slavo e composto da slavi, non solo nella regione Giulia. Per bilanciare la Shoah ebraica ha centrato l’attenzione sull’Olocausto interno quello delle famiglie istriane infoibate ad opera dei partigiani titini. Un dramma reale che produsse - gli storici concordano su queste cifre - sulle settemila vittime. Un dramma peraltro attentamente studiato dalla storiografia antifascista a dispetto di quanto afferma il revisionismo che ne ha fatto un cavallo propagandistico.

Il saggio di Pavone, che introduce a sinistra il concetto di ‘guerra civile’ in luogo di quello di guerra di Liberazione usato per cinquant’anni, viene utilizzato dagli intellettuali revisionisti per avanzare posizioni storicamente insostenibili: il Regno del Sud era un’entità ribelle, la Rsi un insindacabile momento della storia nazionale.

Ancora una volta si sceglieva la via emotiva per rilanciare la memorialistica anziché la storicizzazione di quel periodo. Ma dalla “storiografia” dei Pisanò e Tamaro o di Rauti e Sermonti si ricava solo fanatismo nostalgico. E ancora Accame rilancia una colpevolizzazione generalizzata sostenendo che “... il pullulare di delinquenti, la feccia: ci fosse da entrambe le parti”. Si scaricano sugli individui responsabilità criminali che rientravano nelle strategie di Hitler e Mussolini, dei loro governi costituiti più da servitori che da collaboratori. Quanto a feccia, poi, quella vantata dalla Repubblica di Salò - con gerarchi alla Pavolini e Buffarini Guidi e sicari di bassa lega come Koch, Colombo - era indubbiamente insuperabile e a lungo insuperata.

Negazionismo, vittimismo e defascistizzazione: si riscrive la storia

Nell’autunno del 2000 una componente del neofascismo, proseguendo sulla linea dei Pisanò e Tripodi si lamentò a lungo per la discriminazione che la cultura fascista avrebbe subìto nel dopoguerra, Berardi Guardi sul “Secolo d’Italia” parlò d’un “accanimento violento, brutale, assurdo...”. Per comprendere lo spirito di quest’editorialista è bene sapere che egli colloca De Felice e Nolte nella schiera degli storici di sinistra, anche se in seguito alcuni suoi colleghi fecero l’operazione opposta sostenendo come il docente italiano fosse vicino alle posizioni missine.

Secondo de Turris “In Italia abbiamo avuto una dittatura ferrea come è stata quella sovietica, la dittatura del conformismo culturale, degli utili idioti, dei compagni di strada, la dittatura che monopolizza l’informazione impedendo con ogni mezzo alla cultura della vera opposizione, quella di destra, di manifestarsi”. E Veneziani: “.. il fascismo è morto e sepolto da più di mezzo secolo, ma l’antagonista no. L’antifascismo è un dogma per distinguere chi è destinato all’egemonia e chi all’emarginazione” .

Mentre opera un attacco alla docenza di tanti studiosi bollati come ‘ex sessantottini’ e per questo accusati d’un insegnamento altamente ideologizzato, il revisionismo fa esattamente l’azione di scrittura politica della storia che contesta al proprio avversario.

La battaglia ideologico-politica prosegue più sulla scena mediatica con colpi editoriali e comparsate televisive che nei luoghi deputati alla ricerca. Fisichella esprime un atto d’accusa verso l’atteggiamento “...che diventa motivo di confusione storiografica per intellettuali dalle menti deboli e poco capaci di distinguere”.

La purga che reclama la “verità storica” apporta nei testi scolastici modifiche di questo tono: fra i padri della patria via Ferruccio Parri dentro Anfuso, frequentatore dell’entourage di Goebbels; alle ricostruzioni storiche di Guazza e Pavone si preferiscono quelle di Pisanò; al socialismo liberale di Bobbio il reazionarismo di Evola; al depravato Moravia il collaborazionista Brasillach. Ecco il tenore dei nuovi testi che piacciono alla destra, Colombo e Feltri: “... gli italiani sono brava gente, lo erano anche negli anni Venti e dintorni. Favorirono l’ascesa di Mussolini, un ragazzo che ci sapeva fare, e voleva ripristinare un po’ d’ordine nel paese scosso dagli scioperi...”. Mussolini e il fascismo sono rappresentati rispettivamente “come l’onesto e laborioso padre di famiglia impegnato a ricondurre a ragione il figlio ribelle, il movimento socialista”.

L’operazione è un’astuta e spericolata defascistizzazione del fascismo anch’essa figlia del negazionismo: si nega che siano esistite ideologia, cultura, violenza, classe dirigente, totalitarismo e persino Regime fascisti.

Negando, nascondendo e rimuovendo si propone di celebrare in contemporanea le figure di Matteotti e Gentile. Una volta rimescolate e confuse le acque chi potrà contraddire?

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Francesco Germinario (Molfetta, 1955), storico italiano, svolge attività di ricerca presso la Fondazione Micheletti di Brescia.

Francesco Germinario “Da Salò al governo”, Bollati Boringhieri , Torino, 2005

Enrico Campofreda, luglio 2005

(pubblicato anche su Bellaciao.org, Piazzaliberazione.it, Ecomancina.com)